"Ora sei senza rivali - osservò Pallini - e comincia un Tour nuovo, che nessuno a mai visto e, se sei sincero, non ci credi nemmeno te che Porte e Valverde possono darti noia; se l'avessi tu il loro ritardo, penseresti di poterlo recuperare? Ma, come si dice giustamente, Parigi è ancora lontana e tu devi continuare come oggi, perché la gente ha bisogno di sapere che chi vince lo fa con merito, come è stato oggi: non ti serviva arrivare primo, ma hai sputato l'anima fino in cina al colle."
"E' questo che la gente vuol vedere - approvò Vano - non quei Giri penosi in cui il vincitore, magari, non conquista nemmeno una tappa, o ne vince una e poi pensa solo ad amministrare il vantaggio!" "Tu non sai fare calcoli - intervenne di nuovo Pallini - ed è per questo che piaci agli italiani e ora devi conquistare anche il cuore dei francesi. Falli sognare, vinci ancora, senza mai pensare a controllare la corsa e ti ameranno anche loro."
Era vero. Le cose cambiarono da un giorno all'altro e decisi che sarebbe mutato anche il mio approccio alla corsa: vivevo la condizione irripetibile di dominare la gara che mancava alla mia collezione di G.G. e mi concessi il lusso di guardarla in maniera diversa. Non pensai più a me stesso come a un conquistatore, sceso in terra di Francia per piantare la propria bandiera, bensì un atleta che voleva dare loro, insieme agli altri, il miglior spettacolo possibile, la ragione appunto per la quale assiepavano le strade ogni giorno. Il nostro passaggio dava un senso all'euforia generale, al di là dei singoli, perché capivo che nessuno di noi era indispensabile, anche se tutti necessari. Mi sentivo un uomo nuovo e così, arrivando a Chamrousse, potevo inseguire su, per l'ultima salita, il maldido Valverde nello stesso modo in cui, un giorno assai lontano, avevo raggiunto un ragazzotto con i baffi, per il solo piacere di provare a batterlo, e non perché fosse pericoloso in classifica. E, una volta che l'avevo staccato, perché non provare a darci dentro fino in fondo e a riprendere anche i due fuggitivi che mi stavano davanti? La gente si spellava le mani, ma sarei stato io che, dopo aver vinto la tappa, avrei voluto applaudire loro.
E qualche giorno più tardi, sui Pirenei? Mi saltò la mosca al naso quando vidi che, all'ultimo Km, mi precedeva un certo Giovanni Visconti, da San Baronto! E, anche se ormai il vecchio astio aveva lasciato il posto alla stima, provai lo stesso a riprenderlo. Invano, peraltro! All'arrivo ero accigliato, come un dilettante.
Il giorno dopo mi trovai staccato sulla rampa di Hautacam dal vecchietto terribile, di nome Horner, quando mancavano 10 km. al traguardo. Lui era a mezz'ora in classifica, ma non volevo certo lasciare l'ultima tappa di montagna all'uomo che mi aveva fregato la Vuelta l'anno prima. Così saltai in piedi e gli diedi la caccia, finché non lo lasciai indietro e anche allora continuai a macinare da solo, in mezzo alla gente, per dar motivo di sventolare le proprie bandiere al passaggio della maglia gialla. Corridori e pubblico era uno spettacolo che andava portato avanti sino alla fine.
Fu così che arrivai a Parigi, primo in classifica per diciannove giorni su ventuno, con quattro tappe vinte e con la tripla corona nei G.G. Intorno a me avevo i compagni dell'Astanà, mentre Martino e Vino ci seguivano dall'ammiraglia e sulla seconda vettura c'erano Slongo e Pallini, senza i quali non avrei mai potuto guardare i Campi Elisi vestito di giallo.
Il bello era che esultavano anche i francesi, orgogliosi di vedere due compatrioti salire sul podio: il trentasettenne Peraud, ex campione di "mountain bike" e la giovane maglia bianca Pinot. Così, fra il pubblico, era tutto uno sbandierare e scattare foto.
Sapevo che ad aspettarmi c'erano i miei cari: Rachele, con la piccola Emma Vittoria, il Lupo e mamma Giovanna, fiera di quel figliolo che non voleva far partire da casa; speravo ci fossero anche Antonio e Carmen. Di certo erano presenti, al completo, i Cannibali di Mastromarco (con Carlo e la signora Bruna, mentre il buon Malucchi era morto). Il mio manager Alex Carera l'avrei visto di lì a poco, mentre ero incerto se fossero riusciti ad arrivare Eddy e Pippo Marchetta, dopo aver guidato per ventiquattro ore di fila. Fra quanti, invece, mi stavano guardando in TV, c'era il nonno d'Italia: Alfredo Martini, ormai debole e stanco, ma mi avevano garantito che non si perdeva mai le corse importanti.
Ni-ba-li ... sentivo gridare a tempo, quando eravamo all'ultimo giro del circùito e allora mi misi a pensare che avevo 29 anni e una strada ancora lunga e, dopo un giusto riposo, mi sarei rimesso in fretta a caccia di nuove corse, traguardi e trofei. Era quella la mia vita.
FINE