Martedì mattina è morto Sante Lombardi, un ex ciclista che mi è caro, per tutto ciò che la conoscenza personale ed i tanti dialoghi intercorsi, aggiungono al ricordo agonistico.
Ho saputo della sua scomparsa solo ieri, nel tardo pomeriggio. Riportare qui, qualcosa di lui, è per me un dovere.
Sante Lombardi, una carriera illuminata dallo scatto.Nato a Forlì l'11 dicembre 1933. Pistard velocista. Professionista dal 1959 al 1964, con 25 vittorie su pista. Cresciuto nella Polisportiva Ebro Masotti di Predappio, passò fra i dilettanti alla Forti e Liberi. Fece presto a capire che avendo un grande spunto veloce, ma una carenza molto forte in salita, il suo avvenire stava su quella pista, dove passava di successo in successo. Diplomatosi geometra, si caricò di trasferte notevoli, in treno, per raggiungere i velodromi e le conseguenti riunioni, ma le vittorie e quel danaro che le manifestazioni sugli anelli allora garantivano, lo convinsero definitivamente. Il Pedale Riminese, che allora gravitava sull'unico velodromo tecnicamente idoneo in Romagna, ovvero quello di Rimini, decise di inserirlo nelle sue file nel 1955. Per 4 volte giunse 2° ai Tricolori dilettanti della velocità, e fu azzurro ai Mondiali di Rocourt nel '57 e Parigi nel '58, chiusi entrambe le volte al 5° posto nella specialità amata. Coppi lo segnalò alla Bianchi e col team bianco-azzurro esordì fra i professionisti nel 1959. Entrò così a far parte del periodo aureo della pista italiana, a velodromi pieni, con la possibilità di vincere, e lo fece, un bel numero di gare in Italia e all'estero. Memorabile la sua vittoria al Palazzetto dello Sport di Piazza VI Febbraio a Milano nei quarti di finale dei Campionati Italiani Invernali ’62, aperti ai grandi stranieri, quando superò con due volate geniali e tutte basate sull’anticipo, il grande e monumentale francese Michel Rousseau. Ghigi, Fides, Ignis e Termozeta le altre sue squadre fra i prof. Terminata l'attività, divenne “diesse” della Salamini Comet nel '67, fu per diversi anni presidente della Scat Forlì e poi, negli anni '90, un ritorno di fiamma agonistico con la conquista di 2 Mondiali Master, velocità e 500 metri con partenza da fermo, nel 1998.
Con Sante avevo un rapporto di grande cordialità, potrei dire d’amicizia. Lo conobbi in una conferenza su Coppi il 2 gennaio 1990, dove, fra gli altri, avevo parlato di lui, senza sapere che era in platea. A fine manifestazione venne da me e si presentò. Di lì, decine di altri incontri e tante confidenze sulla sua storia stupenda d’atleta, in attività proprio nel segmento d’oro della pista italiana. E poi quelle impressioni che mi testimoniava sudato e col fiatone sul prato del Servadei di Forlì, al termine degli allenamenti per far bene ai Mondiali Master. Dimagrì qualche chilo, ed a dispetto di un corpo che contava su quasi 65 primavere, sapeva ancora evidenziare quello scatto che aveva fatto tremare tanti grandi del ciclismo di vertice e che gli regalò, qualche settimana dopo, fra i Master, due maglie iridate.
Con lui potevo parlare di tutto, c’era stima, sincerità e quell’alone costruttivo che il sottoscritto cerca sempre nel momento in cui critica. Si discuteva fra fratelli, anche se aveva l’età per essermi padre. “Maurizio – mi diceva – fai bene ad essere duro con chi sottostima la pista. I velodromi servono anche agli stradisti. E fai bene ad amare le nostre generazioni: eravamo umani ed avevamo la schiena dritta. Il ciclismo era vivo fra la gente, anche per questo. Nella mia specialità oggi corrono sul tempo, non c’è tattica, sono piatti. Noi ci guardavamo negli occhi, dovevamo inventare, sempre. Le nostre volate erano mentali, quanto fisiche. Sarà, ma anche su strada si sta vivendo questa enorme decadenza e ci sono corse da sbadiglio. Troppe, tra l’altro”.
A Sante, devo la ciliegina che m’ha spinto alla definitiva convinzione di quanto Romeo Venturelli sia stato il più grande incompiuto del nostro ciclismo. Lombardi lo diresse alla Salamini Comet nel ’67. Le sue parole, che ricordo come un ritornello.
“Lo conoscevo da quasi 11 anni , eravamo stati azzurri insieme anche se su settori diversi. Sapevo quanto fosse inestimabile il suo valore, ma altrettanto bene conoscevo la sua impossibilità. Quando venne da noi in Salamini, qualcuno pensò che con me avrebbe potuto riprendere un corso agonistico meno distante dal suo potenziale. Era una speranza vana. Meo era ingestibile. Non c’era riuscito Bartali e non ci sono riuscito io. Forse solo Coppi, se non fosse morto, qualcosa in più avrebbe potuto fare. Venturelli era l’opposto dell’atleta minimo, con la forza e la classe di chi potevi solo sognare”.
E sui suoi grandi avversari.
“Maspes e Gaiardoni avevano qualcosa in più degli altri. Antonio in particolare, quando voleva, poteva inventare l’incredibile. Rousseau aveva mezzi fisici enormi, ma era mentalmente vulnerabile. Per questo sono riuscito a batterlo. Gasparella, Ogna, Bianchetto, Beghetto, Pettenella, Sacchi, Pinarello, Pesenti, erano tutti, più o meno, di valore mondiale. Anche nei loro momenti meno illuminati. In Italia eravamo così tanti che il Mondiale ce lo giocavamo prima di tutto nel Tricolore. Talvolta si mettevano in pista tali energie, da giungere con qualche cartuccia in meno nel torneo iridato. Ed in giro per il mondo, gli ostici anche più di Rousseau, si contavano eccome. E poi quei tornei come Parigi e Copenaghen, dove solo la partecipazione valeva già come una mezza carriera. Le piste erano piene di gente, ed era un piacere correre per dare spettacolo. Oggi, non c’è più niente di tutto questo. Tanto è vero che il Vigorelli è praticamente morto, ed era per tutto il mondo il simbolo dell’intero movimento. Era l’università, il tempio, il mito, un orgoglio italiano riconosciuto, proprio come Coppi. Vedere quel che è successo, la brutta storia che s’è scritta su quell’impianto dalla fine degli anni sessanta, fa piangere. La colpa? Si dirà che i tempi son cambiati, ma questa è una panacea che alla lunga fa ridere. Di sicuro i dirigenti sono stati incapaci di capire che il nuovo non sempre è migliore del vecchio. Ed è stato così, sia in Italia che altrove. Perché, come tu dici sempre, un dirigente senza passione, nel ciclismo, è deleterio”.
Sulle piste.
“Noi correvamo su anelli di 400 o 333 metri. Oggi sembra una bestemmia superare i 250, ma non è vero che ci sia più spettacolo. Sono le solite convinzioni di chi si mette quel prosciutto davanti agli occhi che si chiama moderno. E non è vero che un Vigorelli ristrutturato, ma con la medesima lunghezza dell’anello, non possa consentire prestazioni tecniche mostruose. Lo dico da tecnico, visto che sono un geometra, e da ex corridore. Un ex che non avendo il fisico tutto potenza, doveva sfruttare lo scatto e creare le condizioni per accorciare le volate. Guarda caso uno che, forse, su una pista da 250 metri, avrebbe avuto più possibilità. Ma il ciclismo dei velodromi deve essere superiore ad una tipologia d’atleta e deve vivere dando opportunità a tutti. Cosa sarebbe il ciclismo su strada, con percorsi tutti uguali e con limiti massimi sulle salite, a 500 metri? Suvvia, sono sciocchezze e tu fai bene a dirlo ovunque”.
Caro Sante, mi sono commosso ricordando questi tasselli dei nostri colloqui. Non saperti più qui è doloroso, ma le tue parole sono un testamento e le vivrò sempre così, fino all’ultimo dei miei giorni.
Maurizio Ricci - Morris