È forse il ritratto migliore che ho scritto su un ciclista, anche se nel luogo dal quale in tanti qui proveniamo, non è stato apprezzato granché. Qui, posto il testo della versione su carta, pubblicata sul primo volume della collana “Graffiti”. Un libro esaurito velocemente, forse perché fra i campioni zoomati, c’era solo un corridore in bicicletta: proprio lui, Roger Riviere ….
Veniva da un paesino di poche migliaia d’anime non distante da St Etienne, nelle Rhone Alpes, silenzioso e gaio, a seconda delle circostanze di intorno. I suoi capelli scuri e la carnagione olivastra, che ricordava terre dense di sole, rendevano i suoi tratti gentili, preziosi compagni di una sottile simpatia. Senza consapevolezza interiore, si muoveva e viveva in un alone che stuzzicava la sensibilità di una Francia che, quando crede, sa essere paese fascinoso come nessuno.
Roger Riviere, giunse agli altari di un ciclismo che in Europa guardava tutti dall’alto di una presa passionale che si trasferiva sulla cultura, sul costume, fino a dare un senso impagabile d’attesa e riconoscenza, verso i nuovi e sempre più imperiosi canali comunicativi. Arrivò evidente, ma con la discrezione di chi vuol far parlare di sé, prima di tutto, per un senso tutto suo dell’impresa, o di quel romantico gesto che irrora di luce una vocazione, un bisogno, chissà dove partito, di giungere all’espressività.
Roger, sapeva che sulla bicicletta il suo talento era imperioso, spumeggiante, in grado di ammaliare gli occhi attenti del tempo, troppo, per non eleggerlo a sua voce, a suo grido, a sua immanente armonia. E così, su quel mezzo, allora significativo di valori riconosciuti, lui, il romantico cantore della fatica e di quella compostezza che rendeva dipinto, si concesse al mondo. A suo modo un poeta, che cantava i suoi versi sullo sfondo d’una terra che, contemporaneamente a lui, applaudiva un mare di figure luminose della cultura e dell’arte, pensatori, filosofi, sociologi, storici, fino a fondere i loro tratti in un’epigone di profondità che solo la Francia fu capace di esibire nel secolo scorso. Su quei giardini d’acume e bellezze, venivano anche a noi bambini aldiquà delle Alpi, sottili richiami di quell’insieme culturale; di quegli aloni francesi, su cui genitori, fratelli e sorelle, discutendone e rimembrandone anche solo gli echi, inevitabilmente ci trasmettevano. Fu in quel periodo che si costruì in me un accostamento fra Roger Riviere e Juliette Greco, sul quale, il resto degli anni, compreso l’oggi, non ne san dare spiegazione, tanto di logica, quanto di passione.
Due figure distanti nel palcoscenico, simili nella bellezza latina, vicine e sovrapposte su un segmento del loro corso d’esistenza; intense, profonde e luminose nei loro acuti vissuti e trasmessi col volto segnato da un filo di tristezza. Ho sempre pensato a quel filo come una demarcazione fra il sogno e la ragione, il compiuto e il domani, l’essere e il volere, la gioia offuscata dalla consapevolezza.
Lei era sublime nell’aggiungere il suo universo alla poesia, nel rendere Sartre, Vian, Ferrè, Mauriac, Brassens, Prevert, Queneau, vicini, palpabili, familiari ad un credo che si muoveva negli istmi d’un messaggio che doveva trovare, nella vita, la strada maestra del superamento dei ricordi e delle miserie umane che la guerra aveva ingigantito. Lei era questo canto, questo grido dai contenuti impegnativi ed impegnati, che si levava aggraziato, soave, con la voce strumento aggiunto; era l’alone d’una donna bellissima, intensa, intelligente, che riportava la Francia e la cultura europea a scolpire una speranza, vissuta fra le crepe, i dolori, i pessimismi della ragione.
Lei, Juliette, di padre corso e madre bordolese, portava naturalmente all’amore.
Lui, Roger, viveva l’istinto ragionato dello stile, lo sforzo fisico incantato sulla proiezione d’una prestazione pronta a gridare primato, come una sfida che dagli avversari s’incamminava per incontrare l’ignoto che sta nel domani. Gli occhi neri di Riviere erano libri, la lettura che ti proponeva, l’intervista che ti rilasciava, senza mai guardare al passato e nemmeno il brillio fugace delle sue pupille, poteva distoglierti dal senso d’una continua ricerca di confini. Lui era una nuova frontiera, o meglio, la sfida. Il suo pedalare armonioso era lo strumento per raggiungere il lontano, lasciando a chi lo guardava, un dono da vivere come un inno all’estetica. Lui, Riviere, nato a due passi dal Rodano, a valle delle Alpi, portava naturalmente all’ammirazione.
Juliette e Roger, uniti dunque nei miei voli fantastici di bambino che, col tempo, ha voluto fermare le lancette e che, ancor oggi, vuol rimanere tale, che non cede all’approfondimento delle altre ragioni di un “perché”, rappresentano un personale tuffo all’indietro a prescindere da ogni impegno razionale, da vivere come un proprio penate e relativo teismo. Uniti, anche quando il volo reale, pauroso, nei burroni del Perjuret, aveva diviso a metà la sfida e la vita di Riviere; anche quando lo vedevo su una sedia a rotelle in TV, ai margini di alcune corse, ed il mio confronto fantastico ondeggiava con passione sui ricordi e le narrazioni di chi, intorno a me, raccontava quel non lontano passato e ciò che poteva diventare Roger. Eppure, bastava una Greco che si immedesimava lontanissima dalle bici, nella maschera di Belfagor, per produrre nei miei teneri anni, un antidoto alla fanciullesca paura di quel fantasma e, l’automatico accostamento a Riviere, diveniva fonte di un ritorno gradevole e trasportante verso il ciclismo. Non mi sono nemmeno mai chiesto se i due si conoscevano, si frequentavano; so per certo che Roger ascoltava Juliette, ma poco importa. Ripeto, quel rapporto resta un mio nido d’infanzia e come tale non lo voglio rovinare. Erano due sottili sentieri percorrenti l’auspicato futuro di un bambino che sognava, che viveva quel tempo col più pieno degli agoni della speranza e che non tardò, poi, a capire quanto quella stagione fosse la più bella e significativa: l’ultima, nell’insieme, a generare acuti prima di un’imperiosa discesa verso la decadenza.
ROGER RIVIERE
Nato il 23 febbraio 1936 a St Etienne (Francia) deceduto l’1 aprile 1976° St Galmier. Completo. Professionista dal 1957 al 1960, con 23 vittorie su strada.
Forse l’icona più triste del ciclismo, per le speranze di un futuro radioso che lasciò tragicamente interrotte, da uno dei più paurosi incidenti di corsa che si ricordi. Non morì, ma rimase su una sedia a rotelle. La sua purissima classe, il suo accarezzare i pedali senza perdere in grammo dell’efficacia, la sua gioventù, avevano fatto di lui una delle più grandi promesse del ciclismo mondiale verso la fine degli anni cinquanta. Prodezze non comuni, su strada e su pista, hanno contraddistinto la sua breve e luminosa carriera: non aveva ancora raggiunto la continuità di rendimento che la maturità sa propiziare, ed è pure vero che nelle classiche non era riuscito a dare la misura della sua grandezza, ma c’erano tutte le basi per rendere lucenti anche i punti più grigi. E poi, come si può non dar credito ad un corridore che corse solo tre anni e mezzo, migliorando di anno in anno le qualità dei suoi successi e della sua presenza?
Con il conforto del trionfo nel Giro d'Europa Zagabria-Namur '56 (con due vittorie di tappa), debuttò fra i prof nel ’57, conquistando la maglia di Campione di Francia dell'inseguimento dopo aver sconfitto in finale Anquetil. E in questa specialità realizzò i più prestigiosi risultati: tre Titoli Mondiali nel '57, '58 e '59. La sua grandezza emerse subito: ventunenne attaccò al Vigorelli il record dell'ora di Baldini (che aveva superato Anquetil) e lo batté con km 46,923. L'anno successivo nell'intento di superare se stesso, nonostante una foratura che gli fece perdere almeno 300 metri, arrivò a km 47,396. Del resto, stava dimostrandosi addirittura più forte di Anquetil, dal quale lo divideva un’intensa rivalità, che sconfisse nelle cronometro del Tour '59 a Nantes e a Digione. Fu proprio nel generoso tentativo di strappare a Jacques il record del Gran Premio delle Nazioni che, nel '59, per 90 chilometri, viaggiò ad andatura primato, ma nel finale crollò, tanto da essere superato nel giro di pista, al Parc des Princes, per 4", dal regolarissimo Aldo Moser.
Quarto nel Tour del '59 e 6° nella Vuelta dello stesso anno (con due tappe vinte), puntava alla vittoria nel Tour del '60, che segnò, invece, la sua fine. Stava lottando testa a testa con Nencini (sempre secondo nelle tre tappe da lui vinte a Bruxelles, Lorient e Pau, ma Maglia Gialla), quando nella Millau-Avignone, quattordicesima tappa, probabilmente nell'intento di rispondere all’attacco del corridore toscano lungo la discesa del Perjuret, si gettò in maniera così spericolata che una sbandata lo mandò fuori strada, picchiò contro un muretto e dopo un volo di una ventina di metri, fini ai bordi di un ruscello. Due vertebre fratturate (una dorsale e una lombare): fu il verdetto di una condanna senza appello. Invalido all'80 per cento, cercò invano di risollevarsi. Tutto gli andò male, fallirono pure le sue aziende: il cafè-restaurant "Vigorelli" a St. Etienne, il garage di Veauche e il campo vacanze a Loriol, nella Valle del Rodano. Le sue sofferenze fisiche lo costrinsero a ricorrere agli stupefacenti e, per questo, ebbe momenti critici anche con la giustizia. Il suo calvario si concluse all'inizio del '76: un tumore alla laringe, pur dopo un’operazione, non gli diede scampo e lo portò all’irreparabile a soli 40 anni.
Il palmares professionistico di Riviere
1957
Squadra: “Saint-Raphael-Géminiani-Dunlop”
Campione del Mondo nell’inseguimento
Campione di Francia nell’inseguimento
Record del Mondo nell’ora: 46,923 km
G.P. di Saint Just sur Loire
Trofeo Edmond Gentil
1958
Squadra: “Saint-Raphael-Géminiani-Dunlop”
Campione del mondo nell’inseguimento
Record del Mondo nell’ora: 47,346 km
Gran Premio d’Annecy
Gran Premio di Pesaro
Gran Premio di Trieste
1959
Squadra: “Rapha-Géminiani”
Campione del mondo nell’inseguimento
Grand Prix d'Algeria (Crono con Gerard Saint e Raphael Geminiani)
Corsa della Cote del Mont Faron
3 tappe del Tour de France.
2 tappe della Vuelta di Spagna
1 tappa del Dauphiné-Libéré.
Grand Prix di Saint Claud.
Grand Prix di Vergt.
Grand Prix di Charlieu.
2° nel GP delle Nazioni
3° nel Dauphiné-Libéré.
4° al Tour de France.
2° nel Super Prestige Pernod
1960
Squadra: “Saint-Raphael-Géminiani-Dunlop
Grand Prix d'Algeria (con Rudy Altig).
1 tappa della Quattro Giorni di Dunkerque
Grand Prix di Chef Boutonne
1 tappa del Dauphiné-Libéré
3 tappe del Tour de France
Le sue prestazioni al Trofeo Tendicollo Universal, la mia prima palestra di ciclismo dal vivo.
Roger, partecipò alle edizioni del 1959 e del 1960. Era attesissimo come uno che si poteva inserire nel duello fra Baldini ed Anquetil, ma deluse in entrambe le occasioni. Andò meglio nel ‘59, dove finì quarto, a 2’47” da Baldini e soli 12” meglio di Coppi. Nel 1960, invece, giunse sesto, a 5’01” da Jacques Anquetil. Erano cronometro lunghe, che Roger ancora pativa, soprattutto se in palio non c’era una classifica importante. Ed è pur vero che nella seconda edizione a cui partecipò, giunse a Forlì con un viaggio di fortuna (allora simili aspetti erano abbastanza soventi). Proprio nel ’60, lo ricordo per un particolare che rese indelebile la memorizzazione di quel suo stile che si scolpì sui miei occhi come un penate di famiglia: in fondo il suo nome lo sentivo da tutti in casa. Ma il particolare scatenante come detto, nacque prima della corsa. Arrivai al circuito di gara con un viaggio che si consumò in piedi, sulla pedana della Lambretta, in mezzo alle gambe di babbo. Erano i mezzi di allora, soprattutto quando temperatura e sole lo consentivano. Erano testimonianze di minor qualità della vita, solo per chi non ha avuto la fortuna di vivere quei tempi stupendi, addirittura vicini all’utopia della felicità. Babbo andò a pagare il biglietto e mi disse di non muovermi, di stare lì, in piedi sulla pedana della Lambretta, opportunamente installata sul cavalletto. E poi, a due passi c’era il mio dado, corridore di casa, che era venuto al Tendicollo con la bici da corsa. Ad un certo punto, dietro di me, sentii un gran chiasso, ed un corridore con una fiammante maglia bianca e gialla con strisce blu sulle spalle, mi passò accanto e si voltò facendomi un sorriso. Non sapevo chi era, e poi vederlo così da vicino, con tutta quella gente che lo seguiva, mi aveva fatto uno strano effetto, quasi di paura. Dado e babbo che, che nel frattempo, stava ritornando dopo aver pagato il biglietto, avevano visto tutto e mi dissero che quel corridore era Riviere. Mi sentii immediatamente orgoglioso e durante la corsa mi immedesimai come un suo vecchio amicone, seguendolo con affetto. Sì, era sufficiente un sorriso, per creare gioia in un bambino di quei tempi magnifici. Chissà, forse anche per questo ricordo dei particolari così nitidi di quando ero piccino, sveglio, magari prodigio come diceva qualcuno, ma pur sempre piccino; mentre oggi, mi scordo cosa ho mangiato cinque minuti prima. Non credo sia solo un fatto di anzianità…No, non potevo e non posso dimenticare Riviere.
Quel maledetto dieci luglio…..
Il giorno del Tendicollo, era il 16 giugno 1960. Neanche un mese dopo, il 10 luglio, mentre giocavo con la fiammante Maserati gialla di plastica, di cui ricordo perfettamente l’odore, che la Dada mi aveva regalato due giorni prima, per il miei vispi 5 anni, il Dado disse a nonna Argia che era triste, perché aveva sentito alla radio che Riviere era caduto in un burrone al Giro di Francia e che rischiava la morte. Anche se ero intento ad improvvisarmi nella passione di babbo e fare l’immaginario Sterling Moss, con relativo “bruuum bruuum”, capii tutto. Andai dal Dado, gli tirai i pantaloni e gli dissi: “E’ quel corridore che m’ha sorriso sulla Lambretta a Forlì, vero?”.
“Sì Pestifero, è proprio lui”.
“Non morirà vero?”
“No, non morirà. Almeno lo spero, ma non tornerà più a correre, ne sono convinto”.
“Mi viene da piangere, Dado”.
“Piangi Pestifero, sfogati che non ti fa male”.
Presi la Maserati gialla, la posi sulla mensola dove tenevo i giochi e corsi a mettere il volto fra le ginocchia della nonna, seduta sulla solita poltrona di vimini a guardare la via Emilia. Lo facevo sempre quando c’era qualcosa che non andava. Io piangevo e lei mi accarezzava i capelli…“Babin, Babin, at voi bén, ci sénsebil cume i tù”.
Note finali.
Coi “se” e coi “ma”, come più volte detto e scritto, non si fa la storia. Nel caso di un campione come Riviere però, una parentesi è legittimo aprirla. Quel Tour lo poteva vincere, così come ne poteva vincere altri. A cronometro era fortissimo e con la maturità avrebbe potuto tenere bene anche quelle più lunghe. In salita, scalatori come Gaul e Bahamontes a parte, poteva giocarsela con tutti. Amava l’Italia e sarebbe certamente venuto a correre il Giro, corsa anch’essa alla sua portata. Il suo rapporto altezza peso era perfetto per le logiche naturali di quei tempi, ed in più, contrariamente ad Anquetil, era un uomo attento alla vita da atleta. Come talento non pareggiava Jacques, anche se era più forte del normanno nelle prove dove serviva una buona dose di potenza esplosiva, quindi inseguimento….fino al record dell’ora. Diciamo che avrebbe costretto Anquetil a dare il meglio di sé e a lasciar perdere un po’ di champagne, ostriche, lumache, arrosti ecc. Col tramonto di Gaul, Riviere rappresentava il vero pericolo per il regno del normanno e c’è da scommettere che lo avrebbe battuto più di una volta.
Roger, era più forte di Poulidor, non già per motivi tecnici, ma per quel senso della sfida e del coraggio, che potremmo definire feroce. Con quel tragico incidente, è così venuto a mancare un tassello importante della storia del ciclismo, ed a proposito di quella fatale caduta, c’è da dire che l’ipotesi dell’incidenza, sulle capacità reattive di Roger, di un analgesico come il Palfium, non è per nulla da buttare. D’altronde, si sa che il doping… è vecchio come lo sport….
Riviere era un poeta della bicicletta, uno che se visto una volta, non lo dimenticavi più e quando morì, nel ’76, proprio il primo aprile, più che uno scherzo, fu per lui una liberazione: troppi guai e quei dolori alla spina dorsale che lo avevano costretto a divenire dipendente alla droga.
La sua vita era finita proprio il 10 luglio 1960, il resto, fu un continuo inseguimento ad uno scopo che non seppe mai raggiungere e che non mi sento di giudicare, come un segno di incapacità o fragilità. Siamo uomini e fortunatamente abbiamo i nostri difetti. Roger Riviere, con la sua pelle di seta sui muscoli, dipingeva i pedali e gli sfondi dei valori atletici, quanto basta per definirlo un grandissimo esempio della bellezza di un corpo umano, quando è chiamato a far vedere cosa è capace di fare.
Chapeau!
Maurizio Ricci - Morris
ROGER RIVIERE
Il campione tragico
dai muscoli ricoperti di seta.
Il campione tragico
dai muscoli ricoperti di seta.
Veniva da un paesino di poche migliaia d’anime non distante da St Etienne, nelle Rhone Alpes, silenzioso e gaio, a seconda delle circostanze di intorno. I suoi capelli scuri e la carnagione olivastra, che ricordava terre dense di sole, rendevano i suoi tratti gentili, preziosi compagni di una sottile simpatia. Senza consapevolezza interiore, si muoveva e viveva in un alone che stuzzicava la sensibilità di una Francia che, quando crede, sa essere paese fascinoso come nessuno.
Roger Riviere, giunse agli altari di un ciclismo che in Europa guardava tutti dall’alto di una presa passionale che si trasferiva sulla cultura, sul costume, fino a dare un senso impagabile d’attesa e riconoscenza, verso i nuovi e sempre più imperiosi canali comunicativi. Arrivò evidente, ma con la discrezione di chi vuol far parlare di sé, prima di tutto, per un senso tutto suo dell’impresa, o di quel romantico gesto che irrora di luce una vocazione, un bisogno, chissà dove partito, di giungere all’espressività.
Roger, sapeva che sulla bicicletta il suo talento era imperioso, spumeggiante, in grado di ammaliare gli occhi attenti del tempo, troppo, per non eleggerlo a sua voce, a suo grido, a sua immanente armonia. E così, su quel mezzo, allora significativo di valori riconosciuti, lui, il romantico cantore della fatica e di quella compostezza che rendeva dipinto, si concesse al mondo. A suo modo un poeta, che cantava i suoi versi sullo sfondo d’una terra che, contemporaneamente a lui, applaudiva un mare di figure luminose della cultura e dell’arte, pensatori, filosofi, sociologi, storici, fino a fondere i loro tratti in un’epigone di profondità che solo la Francia fu capace di esibire nel secolo scorso. Su quei giardini d’acume e bellezze, venivano anche a noi bambini aldiquà delle Alpi, sottili richiami di quell’insieme culturale; di quegli aloni francesi, su cui genitori, fratelli e sorelle, discutendone e rimembrandone anche solo gli echi, inevitabilmente ci trasmettevano. Fu in quel periodo che si costruì in me un accostamento fra Roger Riviere e Juliette Greco, sul quale, il resto degli anni, compreso l’oggi, non ne san dare spiegazione, tanto di logica, quanto di passione.
Due figure distanti nel palcoscenico, simili nella bellezza latina, vicine e sovrapposte su un segmento del loro corso d’esistenza; intense, profonde e luminose nei loro acuti vissuti e trasmessi col volto segnato da un filo di tristezza. Ho sempre pensato a quel filo come una demarcazione fra il sogno e la ragione, il compiuto e il domani, l’essere e il volere, la gioia offuscata dalla consapevolezza.
Lei era sublime nell’aggiungere il suo universo alla poesia, nel rendere Sartre, Vian, Ferrè, Mauriac, Brassens, Prevert, Queneau, vicini, palpabili, familiari ad un credo che si muoveva negli istmi d’un messaggio che doveva trovare, nella vita, la strada maestra del superamento dei ricordi e delle miserie umane che la guerra aveva ingigantito. Lei era questo canto, questo grido dai contenuti impegnativi ed impegnati, che si levava aggraziato, soave, con la voce strumento aggiunto; era l’alone d’una donna bellissima, intensa, intelligente, che riportava la Francia e la cultura europea a scolpire una speranza, vissuta fra le crepe, i dolori, i pessimismi della ragione.
Lei, Juliette, di padre corso e madre bordolese, portava naturalmente all’amore.
Lui, Roger, viveva l’istinto ragionato dello stile, lo sforzo fisico incantato sulla proiezione d’una prestazione pronta a gridare primato, come una sfida che dagli avversari s’incamminava per incontrare l’ignoto che sta nel domani. Gli occhi neri di Riviere erano libri, la lettura che ti proponeva, l’intervista che ti rilasciava, senza mai guardare al passato e nemmeno il brillio fugace delle sue pupille, poteva distoglierti dal senso d’una continua ricerca di confini. Lui era una nuova frontiera, o meglio, la sfida. Il suo pedalare armonioso era lo strumento per raggiungere il lontano, lasciando a chi lo guardava, un dono da vivere come un inno all’estetica. Lui, Riviere, nato a due passi dal Rodano, a valle delle Alpi, portava naturalmente all’ammirazione.
Juliette e Roger, uniti dunque nei miei voli fantastici di bambino che, col tempo, ha voluto fermare le lancette e che, ancor oggi, vuol rimanere tale, che non cede all’approfondimento delle altre ragioni di un “perché”, rappresentano un personale tuffo all’indietro a prescindere da ogni impegno razionale, da vivere come un proprio penate e relativo teismo. Uniti, anche quando il volo reale, pauroso, nei burroni del Perjuret, aveva diviso a metà la sfida e la vita di Riviere; anche quando lo vedevo su una sedia a rotelle in TV, ai margini di alcune corse, ed il mio confronto fantastico ondeggiava con passione sui ricordi e le narrazioni di chi, intorno a me, raccontava quel non lontano passato e ciò che poteva diventare Roger. Eppure, bastava una Greco che si immedesimava lontanissima dalle bici, nella maschera di Belfagor, per produrre nei miei teneri anni, un antidoto alla fanciullesca paura di quel fantasma e, l’automatico accostamento a Riviere, diveniva fonte di un ritorno gradevole e trasportante verso il ciclismo. Non mi sono nemmeno mai chiesto se i due si conoscevano, si frequentavano; so per certo che Roger ascoltava Juliette, ma poco importa. Ripeto, quel rapporto resta un mio nido d’infanzia e come tale non lo voglio rovinare. Erano due sottili sentieri percorrenti l’auspicato futuro di un bambino che sognava, che viveva quel tempo col più pieno degli agoni della speranza e che non tardò, poi, a capire quanto quella stagione fosse la più bella e significativa: l’ultima, nell’insieme, a generare acuti prima di un’imperiosa discesa verso la decadenza.
ROGER RIVIERE
Nato il 23 febbraio 1936 a St Etienne (Francia) deceduto l’1 aprile 1976° St Galmier. Completo. Professionista dal 1957 al 1960, con 23 vittorie su strada.
Forse l’icona più triste del ciclismo, per le speranze di un futuro radioso che lasciò tragicamente interrotte, da uno dei più paurosi incidenti di corsa che si ricordi. Non morì, ma rimase su una sedia a rotelle. La sua purissima classe, il suo accarezzare i pedali senza perdere in grammo dell’efficacia, la sua gioventù, avevano fatto di lui una delle più grandi promesse del ciclismo mondiale verso la fine degli anni cinquanta. Prodezze non comuni, su strada e su pista, hanno contraddistinto la sua breve e luminosa carriera: non aveva ancora raggiunto la continuità di rendimento che la maturità sa propiziare, ed è pure vero che nelle classiche non era riuscito a dare la misura della sua grandezza, ma c’erano tutte le basi per rendere lucenti anche i punti più grigi. E poi, come si può non dar credito ad un corridore che corse solo tre anni e mezzo, migliorando di anno in anno le qualità dei suoi successi e della sua presenza?
Con il conforto del trionfo nel Giro d'Europa Zagabria-Namur '56 (con due vittorie di tappa), debuttò fra i prof nel ’57, conquistando la maglia di Campione di Francia dell'inseguimento dopo aver sconfitto in finale Anquetil. E in questa specialità realizzò i più prestigiosi risultati: tre Titoli Mondiali nel '57, '58 e '59. La sua grandezza emerse subito: ventunenne attaccò al Vigorelli il record dell'ora di Baldini (che aveva superato Anquetil) e lo batté con km 46,923. L'anno successivo nell'intento di superare se stesso, nonostante una foratura che gli fece perdere almeno 300 metri, arrivò a km 47,396. Del resto, stava dimostrandosi addirittura più forte di Anquetil, dal quale lo divideva un’intensa rivalità, che sconfisse nelle cronometro del Tour '59 a Nantes e a Digione. Fu proprio nel generoso tentativo di strappare a Jacques il record del Gran Premio delle Nazioni che, nel '59, per 90 chilometri, viaggiò ad andatura primato, ma nel finale crollò, tanto da essere superato nel giro di pista, al Parc des Princes, per 4", dal regolarissimo Aldo Moser.
Quarto nel Tour del '59 e 6° nella Vuelta dello stesso anno (con due tappe vinte), puntava alla vittoria nel Tour del '60, che segnò, invece, la sua fine. Stava lottando testa a testa con Nencini (sempre secondo nelle tre tappe da lui vinte a Bruxelles, Lorient e Pau, ma Maglia Gialla), quando nella Millau-Avignone, quattordicesima tappa, probabilmente nell'intento di rispondere all’attacco del corridore toscano lungo la discesa del Perjuret, si gettò in maniera così spericolata che una sbandata lo mandò fuori strada, picchiò contro un muretto e dopo un volo di una ventina di metri, fini ai bordi di un ruscello. Due vertebre fratturate (una dorsale e una lombare): fu il verdetto di una condanna senza appello. Invalido all'80 per cento, cercò invano di risollevarsi. Tutto gli andò male, fallirono pure le sue aziende: il cafè-restaurant "Vigorelli" a St. Etienne, il garage di Veauche e il campo vacanze a Loriol, nella Valle del Rodano. Le sue sofferenze fisiche lo costrinsero a ricorrere agli stupefacenti e, per questo, ebbe momenti critici anche con la giustizia. Il suo calvario si concluse all'inizio del '76: un tumore alla laringe, pur dopo un’operazione, non gli diede scampo e lo portò all’irreparabile a soli 40 anni.
Il palmares professionistico di Riviere
1957
Squadra: “Saint-Raphael-Géminiani-Dunlop”
Campione del Mondo nell’inseguimento
Campione di Francia nell’inseguimento
Record del Mondo nell’ora: 46,923 km
G.P. di Saint Just sur Loire
Trofeo Edmond Gentil
1958
Squadra: “Saint-Raphael-Géminiani-Dunlop”
Campione del mondo nell’inseguimento
Record del Mondo nell’ora: 47,346 km
Gran Premio d’Annecy
Gran Premio di Pesaro
Gran Premio di Trieste
1959
Squadra: “Rapha-Géminiani”
Campione del mondo nell’inseguimento
Grand Prix d'Algeria (Crono con Gerard Saint e Raphael Geminiani)
Corsa della Cote del Mont Faron
3 tappe del Tour de France.
2 tappe della Vuelta di Spagna
1 tappa del Dauphiné-Libéré.
Grand Prix di Saint Claud.
Grand Prix di Vergt.
Grand Prix di Charlieu.
2° nel GP delle Nazioni
3° nel Dauphiné-Libéré.
4° al Tour de France.
2° nel Super Prestige Pernod
1960
Squadra: “Saint-Raphael-Géminiani-Dunlop
Grand Prix d'Algeria (con Rudy Altig).
1 tappa della Quattro Giorni di Dunkerque
Grand Prix di Chef Boutonne
1 tappa del Dauphiné-Libéré
3 tappe del Tour de France
Le sue prestazioni al Trofeo Tendicollo Universal, la mia prima palestra di ciclismo dal vivo.
Roger, partecipò alle edizioni del 1959 e del 1960. Era attesissimo come uno che si poteva inserire nel duello fra Baldini ed Anquetil, ma deluse in entrambe le occasioni. Andò meglio nel ‘59, dove finì quarto, a 2’47” da Baldini e soli 12” meglio di Coppi. Nel 1960, invece, giunse sesto, a 5’01” da Jacques Anquetil. Erano cronometro lunghe, che Roger ancora pativa, soprattutto se in palio non c’era una classifica importante. Ed è pur vero che nella seconda edizione a cui partecipò, giunse a Forlì con un viaggio di fortuna (allora simili aspetti erano abbastanza soventi). Proprio nel ’60, lo ricordo per un particolare che rese indelebile la memorizzazione di quel suo stile che si scolpì sui miei occhi come un penate di famiglia: in fondo il suo nome lo sentivo da tutti in casa. Ma il particolare scatenante come detto, nacque prima della corsa. Arrivai al circuito di gara con un viaggio che si consumò in piedi, sulla pedana della Lambretta, in mezzo alle gambe di babbo. Erano i mezzi di allora, soprattutto quando temperatura e sole lo consentivano. Erano testimonianze di minor qualità della vita, solo per chi non ha avuto la fortuna di vivere quei tempi stupendi, addirittura vicini all’utopia della felicità. Babbo andò a pagare il biglietto e mi disse di non muovermi, di stare lì, in piedi sulla pedana della Lambretta, opportunamente installata sul cavalletto. E poi, a due passi c’era il mio dado, corridore di casa, che era venuto al Tendicollo con la bici da corsa. Ad un certo punto, dietro di me, sentii un gran chiasso, ed un corridore con una fiammante maglia bianca e gialla con strisce blu sulle spalle, mi passò accanto e si voltò facendomi un sorriso. Non sapevo chi era, e poi vederlo così da vicino, con tutta quella gente che lo seguiva, mi aveva fatto uno strano effetto, quasi di paura. Dado e babbo che, che nel frattempo, stava ritornando dopo aver pagato il biglietto, avevano visto tutto e mi dissero che quel corridore era Riviere. Mi sentii immediatamente orgoglioso e durante la corsa mi immedesimai come un suo vecchio amicone, seguendolo con affetto. Sì, era sufficiente un sorriso, per creare gioia in un bambino di quei tempi magnifici. Chissà, forse anche per questo ricordo dei particolari così nitidi di quando ero piccino, sveglio, magari prodigio come diceva qualcuno, ma pur sempre piccino; mentre oggi, mi scordo cosa ho mangiato cinque minuti prima. Non credo sia solo un fatto di anzianità…No, non potevo e non posso dimenticare Riviere.
Quel maledetto dieci luglio…..
Il giorno del Tendicollo, era il 16 giugno 1960. Neanche un mese dopo, il 10 luglio, mentre giocavo con la fiammante Maserati gialla di plastica, di cui ricordo perfettamente l’odore, che la Dada mi aveva regalato due giorni prima, per il miei vispi 5 anni, il Dado disse a nonna Argia che era triste, perché aveva sentito alla radio che Riviere era caduto in un burrone al Giro di Francia e che rischiava la morte. Anche se ero intento ad improvvisarmi nella passione di babbo e fare l’immaginario Sterling Moss, con relativo “bruuum bruuum”, capii tutto. Andai dal Dado, gli tirai i pantaloni e gli dissi: “E’ quel corridore che m’ha sorriso sulla Lambretta a Forlì, vero?”.
“Sì Pestifero, è proprio lui”.
“Non morirà vero?”
“No, non morirà. Almeno lo spero, ma non tornerà più a correre, ne sono convinto”.
“Mi viene da piangere, Dado”.
“Piangi Pestifero, sfogati che non ti fa male”.
Presi la Maserati gialla, la posi sulla mensola dove tenevo i giochi e corsi a mettere il volto fra le ginocchia della nonna, seduta sulla solita poltrona di vimini a guardare la via Emilia. Lo facevo sempre quando c’era qualcosa che non andava. Io piangevo e lei mi accarezzava i capelli…“Babin, Babin, at voi bén, ci sénsebil cume i tù”.
Note finali.
Coi “se” e coi “ma”, come più volte detto e scritto, non si fa la storia. Nel caso di un campione come Riviere però, una parentesi è legittimo aprirla. Quel Tour lo poteva vincere, così come ne poteva vincere altri. A cronometro era fortissimo e con la maturità avrebbe potuto tenere bene anche quelle più lunghe. In salita, scalatori come Gaul e Bahamontes a parte, poteva giocarsela con tutti. Amava l’Italia e sarebbe certamente venuto a correre il Giro, corsa anch’essa alla sua portata. Il suo rapporto altezza peso era perfetto per le logiche naturali di quei tempi, ed in più, contrariamente ad Anquetil, era un uomo attento alla vita da atleta. Come talento non pareggiava Jacques, anche se era più forte del normanno nelle prove dove serviva una buona dose di potenza esplosiva, quindi inseguimento….fino al record dell’ora. Diciamo che avrebbe costretto Anquetil a dare il meglio di sé e a lasciar perdere un po’ di champagne, ostriche, lumache, arrosti ecc. Col tramonto di Gaul, Riviere rappresentava il vero pericolo per il regno del normanno e c’è da scommettere che lo avrebbe battuto più di una volta.
Roger, era più forte di Poulidor, non già per motivi tecnici, ma per quel senso della sfida e del coraggio, che potremmo definire feroce. Con quel tragico incidente, è così venuto a mancare un tassello importante della storia del ciclismo, ed a proposito di quella fatale caduta, c’è da dire che l’ipotesi dell’incidenza, sulle capacità reattive di Roger, di un analgesico come il Palfium, non è per nulla da buttare. D’altronde, si sa che il doping… è vecchio come lo sport….
Riviere era un poeta della bicicletta, uno che se visto una volta, non lo dimenticavi più e quando morì, nel ’76, proprio il primo aprile, più che uno scherzo, fu per lui una liberazione: troppi guai e quei dolori alla spina dorsale che lo avevano costretto a divenire dipendente alla droga.
La sua vita era finita proprio il 10 luglio 1960, il resto, fu un continuo inseguimento ad uno scopo che non seppe mai raggiungere e che non mi sento di giudicare, come un segno di incapacità o fragilità. Siamo uomini e fortunatamente abbiamo i nostri difetti. Roger Riviere, con la sua pelle di seta sui muscoli, dipingeva i pedali e gli sfondi dei valori atletici, quanto basta per definirlo un grandissimo esempio della bellezza di un corpo umano, quando è chiamato a far vedere cosa è capace di fare.
Chapeau!
Maurizio Ricci - Morris