Sono sempre più convinto, mio malgrado, che questo sport possa migliorare solo con l'apporto di persone che provengono dal suo esterno.
C'è una congenita ipocrisia di fondo non solo fra i corridori, ma anche fra gli addetti e una insopportabile ipocrisia fra chi questo sport lo narra, ne conosce ogni retroscena, ma continua per ipocrisia narrativa a descrivere una favola che è morta, sepolta, violentata, uccisa nel suo dna.
Sembra il giornalaismo de "La vita in diretta".
Vicennati sulla sua pagina Facebook rivolto a Danilo Di Luca:
Tristezza, per la vita tremenda che hai fatto. Puoi aver guadagnato milioni di euro, ma ti sei costretto a campare tra sotterfugi e aghi, bugie e calcoli da alchimista per non farti beccare. Ti sei portato dentro per anni una stanza segreta in cui custodire i peggiori segreti. Hai fatto fuori un matrimonio bellissimo e allontanato una donna eccezionale, non hai potuto parlare sino in fondo con le persone che ti stavano attorno. Se ti fermi a rileggerla questa storia, come puoi esserne fiero? Tristezza.
Rabbia, per tutte le volte che mi hai preso in giro. Dicono: «Che cosa avrebbe potuto raccontarti? Se ti avesse detto del doping, avrebbe rovinato l'amicizia, perché ti avrebbe costretto a scrivere». Probabilmente è vero, ma era davvero amicizia? Rabbia.
Rammarico, per non aver colto l'unica occasione in cui in realtà mi lasciasti intravedere qualcosa: ricordi? Campo Imperatore, giugno 1999, una ventina di giorni dopo Campiglio. Un gruppo di giovani corridori in ritiro e proprio mentre andavo via dalla montagna, quella frase urlata dalla bici attraverso il finestrino: «Scrivilo, i primi a essere contenti che sparisse l'epo saremmo noi campioni. Vinceremmo di più e più facilmente». Ora posso dire che quella era un'ammissione. La scrissi. Pensai fosse un concetto generico, invece era un'ammissione. E come sempre in quegli anni, non se ne fece nulla. Rammarico.
Malinconia, per il declino dell'uomo. Eri un grande, da seguire e raccontare. Sfrontato. Forte. Incazzato. Magari non avevi il motore dei più forti, ma due palle così che ti avrebbero permesso di vincere anche senza prendere nulla. Marzoli ha ragione alla fine del libro: la Liegi la vincevi anche come mamma t'ha fatto. Il Giro no, ma perché non farsi bastare le classiche? Malinconia.
Fastidio, quando sento parlare di pulizia. Perché si pretende la pulizia soltanto dagli atleti di questo sport, quando la si è dimenticata in ogni altro angolo della vita moderna? Che cosa significa: pulito? C'è un mestiere da fare e ci sono regole da rispettare, punto. Il resto è la solita ipocrisia. L'ipocrisia che spinge oggi a esaltare coloro che hanno smesso per non doparsi e che invece, nei giorni del ritiro, venivano indicati come corridori di scarso talento che avevano trovato la scusa giusta. La stessa ipocrisia che adesso spinge a puntare il dito contro l'ingenuo, perché tale sei sempre stato, che ha scritto l'ennesimo libro. Ma poi, perché cavolo l'hai scritto? Qual era il tuo obiettivo? Sarebbe stato bello lo avessi scritto. Fastidio.
Malinconia, nell'assistere al declino disperato e disperante. Penso a tuo padre e a quelle tre dita che gli mancano. Penso alla sua schiena ingobbita. Capisco la voglia di emanciparsi e guadagnare più di lui, capisco la determinazione e la voglia di arrivare. Non riesco a farmi scendere il tradimento di quelle origini umili e dei valori che ti sono stati passati. Malinconia.
Rabbia, di nuovo, nel leggere di come tutti abbiano assecondato la tua follia, perché di follia s'è trattato. La riunione con Corsetti e Zorzoli che ti avvisano che c'è un sospetto uso di epo. Callari che si limita a chiedere se state tranquilli. E poi Carlo, di cui dico poco perché so che sta male e mi va di rispettarlo. Se davvero vuoi bene a qualcuno, non gli spieghi il modo per distruggersi. Rabbia.
Stizza, per non aver creduto a Luca Scinto (che avrà pure tante colpe, ma proprio grazie ad esse sa vedere cose che io non coglievo) quando mi disse di averti guardato negli occhi prima di riprenderti e di aver capito che eri certo di poter fare come sempre. Forse sarebbe stato meglio se avessi smesso prima. Stizza.
Rammarico, perché proprio nello scrivere questo libro avresti potuto mostrare il vero Danilo, quello che in realtà ha una sensibilità, che ha sempre nascosto dietro la maschera da killer. Non ci credo che non ti dispiace di come è finita, non ci credo neanche un po'. Quando un sogno si sfascia a questo modo, il segno te lo lascia dentro. Sarebbe stato bello che nel momento in cui ti sei consegnato alla gogna mediatica, avessi mostrato la consapevolezza di aver buttato via il tuo talento. Rammarico.
Tenerezza, pensando al ragazzino che batteva tutti i bimbi dei dintorni. Era ancora tutto da scrivere, non avevi ancora deciso di scriverla col sangue. Tenerezza, già...
Gratitudine, per aver ammesso di averci mentito. A un certo punto ti viene la colpa per aver raccontato qualcosa di poco vero. Ho vissuto tutta la tua traiettoria, non mi sono perso una tappa. Il Regioni delle tre tappe nel 1997. Il campionato italiano del 1998. Il Giro dei dilettanti dello stesso anno. Le vittorie da pro' fino a quell'ultima domanda nella stanza di Dimaro.
«Danì, l'hai fatto davvero?».
«No, ti dico che non ho fatto niente...».
Fatica, infine, con la quale anche questa volta mi tuffo in un nuovo Giro d'Italia, chiedendomi a cosa credere e a cosa no. Qualcosa avrò certamente dimenticato, qualcosa mi verrà rinfacciato ancora: sentivo di dover scrivere queste parole, essendomi sentito tirato per la manica. Non ho mai capito se abbiate pensato di fare del bene a questo sport, prima dopandovi e poi raccontandolo. Ma se ancora c'è gente che viene a vederli passare, spero si imponga la consapevolezza che quella che hai narrato è stata la triste storia di Danilo Di Luca. Dire che tutti gli altri facevano lo stesso è il modo più vigliacco per attenuare la tua colpa. E tu per quel che ricordo non sei mai stato un vigliacco. Oppure ho sbagliato anche stavolta?