Vorrei fare altre domande a Dante, ma prima sento il bisogno di una azione catartica.
Nel libro di Di Luca c'è una parte che è pubblica perché riportata dalla stessa casa editrice in anteprima sul loro sito.
All'interno di quel capitolo c'è la parte più bella, più dolce e più tenera del racconto di Danilo Di Luca.
E' la sua storia di fanciullo, di un bambino che in sella alla sua cavallina si ritrova principe in attesa di diventare re, di un bambino in cui si accende la passione per il ciclismo.
Bellissima la descrizione del rapporto di amore "felino" con la mamma, il rispetto enorme per un papà silenzioso e gran lavoratore.
Il resto del libro è una verità adulta, amara, piena di spine, ma queste righe di seguito non possono non emozionare, se non proprio commuovere, soprattutto chi quelle emozioni le ha vissute, direttamente o per interposta persona.
Ho gli occhi incollati al televisore.
Dalla finestra che dà sul cortile entra un raggio di sole, illumina
le foto appese alla parete, sono ciclisti che si arrampicano
sulla strada, gesti atletici e fatica.
Fuori, appoggiata al muro di cinta, la biciclettina con cui
ho disputato le mie prime otto gare, tutte vinte.
Sullo schermo scivolano le immagini del 67° Giro d’Italia,
1984.
Il divano è piccolo, la cucina a vista, qualche oggetto di
poco valore e i mobili fatti da mio padre, falegname. Alla
mano destra gli mancano tre dita, una per ogni figlio.
Seduti nell’aria calda e ferma, uno accanto all’altra, siamo
soli, mia madre e io, ipnotizzati dall’impresa che si sta per
compiere davanti ai nostri occhi: l’ultima tappa, la cronometro
di Verona se la giocano Moser e Fignon. Fignon parte
con un vantaggio di un minuto e ventuno secondi, ma Moser
è una fucilata.
Sento la coscia di mia madre incollata alla mia, siamo immobili,
quando compaiono i risultati dei tempi parziali lei
non riesce a controllare qualche fremito involontario, Moser
è in netto vantaggio. Infila l’ingresso dell’arena ed esplode il
finimondo. Fignon deve ancora arrivare ma tutti hanno già
capito che Moser si è preso tappa e giro. In un attimo siamo
in piedi e gridiamo, gridiamo forte, con i pugni chiusi alzati
verso il cielo.
Dopo scoppierà il putiferio, scriveranno che Moser ha rubato
la vittoria, che l’elicottero della rai ha frenato il francese
e sospinto l’italiano, che le ruote lenticolari l’hanno avvantaggiato,
che per lui hanno annullato all’ultimo minuto
la scalata dello Stelvio.
Ho otto anni e sono così lontano dall’immaginare trucchi,
veleni, guerre intestine. Per me la bici è tagliare l’aria con la
faccia, è vedere la linea dell’arrivo scorrere sotto la ruota.
Moser imbraccia il trofeo e mia mamma scoppia a piangere.
La guardo da sotto, non ho mai visto piangere un adulto,
soprattutto uno dei miei genitori. Le afferro la gonna e tiro
forte: «Ma’, stai a piangere per Moser? Allora mo’ che vado
io al Giro e lo vinco tu che fai? Svieni qui?».
Abbassa gli occhi, mi prende il viso tra le mani e ride, poi
si asciuga la faccia con il grembiule, non immagina che da
quel giorno avrei inseguito il Giro, avrei fatto di tutto per tagliare
il traguardo ed entrare nell’albo d’oro.
...
Nel ’95 passo da juniores a dilettante. Ho 19 anni e corro con
gente di ogni età, anche ex professionisti. Si fanno di tutto.
Quelli che battevo con facilità mi sfrecciano accanto, sono
dei bolidi. “Come cazzo è possibile?” continuo a ripetermi
mentre li vedo sfilare uno a uno con le facce di chi sta facendo
l’uscita della domenica. Io fatico come un dannato, sudo, entro
in lattosi1
e i battiti mi salgono a centottanta. Non mollo,
anche quando mi staccano e capisco che non ne ho più.
Sono stato un bambino prodigio e la mia mente si è abituata
a sentire la vittoria come qualcosa che sta sempre a
portata di mano.
A tre anni mi metto in sella a una bicicletta e, dopo aver
osservato bene mio fratello Aldo che ne ha tredici, provo a
fare il surplace. Il surplace è quando stai fermo in equilibrio
sulla bici senza appoggiare i piedi a terra. È come tenere
ferma l’auto in salita giocando con frizione e acceleratore.
Mi riesce facile come respirare. Aldo non ci crede.
Da piccolo sono indiavolato e faccio di tutto: gioco a calcio,
corro a piedi, nuoto, scio, vado con lo skateboard, e tutto
mi riesce bene. Le cose cambiano quando a otto anni mi regalano
la prima bici da corsa.
Me la compra mio padre, è usata e me la rivernicia tutta:
«Di che colore la vuoi?».
«D’oro.»
Mi guarda.
«La voglio d’oro.»
Mi accarezza la testa e mi sorride, è saldo come una quercia.
Quando me la restituisce tutta scintillante, vado sotto la
salita che c’è dietro casa, mi alzo sui pedali e parto. Muovo
la bici a destra e a sinistra in modo che controbilanci il mio
peso, il corpo sa già come fare, sa tutto. In poche mosse raggiungo
una perfetta sincronia, io e lei siamo tutt’uno.
Mi sono detto: “Questo è il mio sport”.
Continuo a fare il resto ma la bici è la mia cosa speciale.
Da quel momento non ci sono state più feste di compleanno,
comunioni, sabati pomeriggio con gli amici, niente di
niente, solo la bici.
Da piccolo ero timidissimo, avevo paura di parlare con
le persone. La presenza degli altri mi faceva sudare, non mi
sentivo adeguato, provavo il disagio di non essere mai al posto
giusto. La bici mi ha dato coraggio, mi ha dato una carta
d’identità con cui presentarmi al mondo. Lo sforzo la fatica
l’ostinazione non erano niente, alle gare ero qualcuno.
Mia madre ripete sempre che la distruggeva vedermi correre,
arrivavo sul traguardo che non riuscivo a parlare, ero
stremato, dovevano tirarmi giù a braccia. Quando facevo le
discese e lei mi guardava dalla tv di casa, se ne andava in corridoio
dalla paura.
Per capire cosa significa andare in discesa, basta prendere
una bici e provare a venire giù a 40, 50 chilometri all’ora
senza toccare i freni. Già così si ha una buona sensazione di
quello che può succedere. Ecco, noi scendiamo a 60, 70, 80
chilometri con punte di 100, la strada ti viene incontro in un
modo violentissimo. Una cosa da perdere la vita.
Per non farsi male c’è bisogno di una lucidità estrema, c’è
bisogno di essere affilati e precisi come una lama, freddi. E
non puoi avere paura.
In discesa andavo come un pazzo, era l’unico modo di
correre che conoscevo, l’unico che mi avrebbe permesso di
vincere.
Scalpito per gareggiare, la bici è una fissazione, una malattia.
Mio nonno è stato un ciclista amatoriale, abbiamo la
casa tappezzata di sue foto con il numero sulla schiena e lo
sguardo saettante. Vorrebbe che almeno uno di noi tre seguisse
le sue orme. Massimo, mio fratello di mezzo, non ne
vuole sapere e si mette a fare il maratoneta, mentre Aldo lo
accontenta.
Sono piccolo, in mezzo alla folla assiepata lungo l’arrivo
gli adulti spingono e si spintonano, mio nonno mi solleva e
mi mette in spalla così da permettermi di vedere i corridori
che tagliano il traguardo. Arriva il primo, esausto, il viso
smangiato dallo sforzo, appena sfreccia sulla linea dell’arrivo
stacca le mani dal manubrio e le alza al cielo, i suoi occhi in
un secondo si fanno vivi e grandi, tutta l’energia rimasta si
concentra in un urlo bestiale che scarica a terra la tensione,
il desiderio, l’adrenalina. In un lampo so cosa voglio, più di
ogni cosa al mondo voglio essere al suo posto, il mio corpo
coperto di brividi e rabbia agonistica.
A qualche decina di metri lo segue il gruppetto dei fuggitivi,
Aldo non c’è, lo cerco con lo sguardo, non lo trovo.
Spingo gli occhi più in là, fino in fondo al rettilineo che precede
l’arrivo, eccolo, sono in due, sedicesimo e diciassettesimo
posto. Ora sprinta con quell’altro, penso, e invece lui
che fa? Resta dietro, lascia che l’altro faccia la volata e gli si
mette a ruota. Arriva diciassettesimo.
Nonno mi posa a terra, mi prende per mano e ci facciamo
largo per raggiungere Aldo, lo vedo, scende dalla bici e dà
una pacca sulla spalla all’avversario che l’ha battuto. Lascio
la mano di mio nonno e mi scaravento contro di lui, tiro un
calcio alla ruota: «Manco la volata fai! Cosa corri a fare?».
Sono arrabbiatissimo, non per il diciassettesimo posto,
sono furioso perché non ci ha nemmeno provato, perché ha
mollato prima di provarci. Aldo è senza fiato per la fatica, mi
guarda con gli occhi sgranati e non capisce, so che non capisce.
«Ma che vuoi? Non sai di che parli, perché non ci provi
tu?»
«L’anno prossimo mi metto a correre e ti faccio vedere io
come si fa.»
A otto anni disputo la mia prima gara a Picciano, provincia
di Pescara. Mi allena Mario Di Nicola, l’uomo che mi ha
messo in bici e mi ha insegnato come starci.
Il circuito è tutto in paese, due giri su strada. Fa parte delle
gare nazionali. Anche se è il mio esordio, non corro in G1,
corro direttamente in G2, con i ragazzi più grandi.
Sono emozionatissimo, il cuore mi batte forte.
Mario mi accompagna a fare il controllo rapporti della bici
e poi alla partenza, lì mi lascia da solo: «Mo’ quando danno
il via, tu parti e vai come sai fare, come fai sempre in allenamento».
Ha il potere di farmi sentire che posso sconfiggere
qualsiasi drago.
Scatta il segnale, sono così agitato che non riesco a infilare
il piede nel fermapunte, non parto. Gli altri sono andati tutti.
Su un circuito del genere che dura massimo 3 chilometri,
se parti per ultimo hai già perso. Un altro bambino avrebbe
pianto, avrebbe buttato la bici a terra e si sarebbe ritirato,
ma io non ci penso nemmeno, non voglio perdere.
Mi fiondo a testa bassa e pedalo come un matto, ci metto
tutta la forza che ho, tutta la volontà, l’ostinazione dei miei
otto anni. Li rimonto uno a uno. A 500 metri dall’arrivo, a
metà dell’ultimo giro supero quello che sta in testa e lo stacco.
Non ci credo nemmeno io. Taglio il traguardo. All’arrivo mi
aspetta Mario. Alla fine di una gara non si spendeva mai in
complimenti, faceva solo delle grandi cazziate quando per-
devi. Invece questa volta mi viene incontro, mi prende dalla
bici e mi solleva in aria, mi fa festa davanti a tutti i compagni,
anche quelli più grandi. Sono così felice che mi tremano
le gambe, a stento riesco a trattenere la pipì. Ancora adesso
ricordo il calore e l’intensità di quel momento. Mia madre
tiene la coppa sul ripiano più alto del soggiorno, 29 aprile
1984, Picciano.
È Mario a insegnarmi tutto sulla bici: stare a ruota, fare
le volate, stare in gruppo. Già vede i miei possibili difetti e
cerca di correggerli alla radice. Mi urla sempre perché in discesa
e in pianura non tengo le mani sulla parte inferiore del
manubrio: «Dani’, mani basse sulla bici! Quante volte te lo
devo dire?». Ha ragione, si ha più controllo, più stabilità e
si è anche più aerodinamici.
Imparo a impennare. Lo faccio talmente bene che Aldo
prima di ogni gara mi fa interi servizi fotografici: faccio qualche
metro su una ruota sola senza mani, impenno quasi da
fermo e resto in equilibrio per una manciata di secondi.
Sono dotato e sono anche vanitoso, esibizionista. Mario
se ne accorge e comincia a chiamarmi “il polletto Valle
Spluga”. Deve tenere a bada il mio carattere e non è semplice,
perché vinco facile e spesso. Ogni volta trova qualcosa
da rimproverarmi ed è la salvezza per me, dà una misura al
mio ego strabordante.
Mi bastona sempre sulla tattica, che negli anni diventa il
mio punto di forza: «Ecco che arriva il polletto Valle Spluga!
Eh bravo il pollo, sei partito troppo presto a fare la volata».
Oppure: «Sei partito troppo tardi a fare la volata».
Oppure: «Dovevi staccarlo prima sullo strappetto».
«Dovevi anticiparlo in curva.»
«Dovevi metterti a ruota e poi anticiparlo.»
Mi martella per nove anni, dagli otto ai sedici, e mi regala
gli insegnamenti più preziosi.
Dopo Picciano disputo altre diciannove gare nazionali
– venti è il numero massimo a cui si può partecipare –, ne
vinco diciassette e nelle restanti due mi piazzo secondo.
Mia madre mi ha raccontato che, quando passeggiava
prima delle gare, c’era sempre qualche bambino che vedendomi
si metteva a piangere: «Non voglio più correre, ci sta
pure Di Luca oggi». Piangevano perché sapevano che vincevo.
Sembravo un angelo, piccolino con i boccoli lucidi e
biondi, ma avevo dentro una cosa che mi mangiava, una smania
che era più forte di ogni vergogna, di ogni timidezza, di
ogni paura. Era un bruciore micidiale, che si spegneva solo
quando tagliavo il traguardo.
A una gara capita che c’è un ragazzino bravo, un certo
Simone. In giro ho sentito parlare di lui ma non ci ho mai
corso. Ha la mia stessa età, due gambette sode e scattanti e
mi passa di quindici centimetri.
Sono seduto sul bagagliaio aperto dell’auto, mia madre
mi sta aiutando a vestirmi, pantaloncini e maglietta da corsa,
calze, scarpette.
«Dani’, hai visto che oggi ci sta pure Simone?»
Punta al centro delle mie paure e va a segno. Mi sono sempre
chiesto da chi ho ereditato una certa durezza, un senso di
sfida nei confronti della vita e la testa coriacea. Oggi so che
è stata lei, mia madre ha sempre voluto che vincessi quanto
l’ho voluto io.
«Che me n’importa a me.»
Mi libero dalla sua presa e finisco d’infilarmi da solo la
maglietta. Volto lo sguardo dall’altra parte, per orgoglio, perché
non voglio che mi legga un’incertezza negli occhi, perché
non voglio deluderla e non voglio ammettere di aver paura,
perché ho il dubbio che lei possa pensare che non sono il più
forte. La paura, il dubbio sono le uniche cose che si possono
mettere tra un corridore e il traguardo.
Perdo, arrivo secondo dietro Simone.
A fine gara, mentre mia madre mi spoglia, non muovo un
dito per aiutarla, sono incazzato nero.
«Dani’, ma che c’hai? Alza il piede che così non ti riesco
a togliere la scarpa.»
Sferro un calcio di protesta e le sfioro il viso. Mi guarda
nello stesso modo in cui guardo gli avversari in gara, cosa che
mi ha fatto guadagnare il soprannome di killer.
«Non ti do uno schiaffo solo perché c’è gente intorno.»
«È colpa tua se ho perso».
«Ah sì? Questa è bella, e perché?»
«Tu mi hai detto di Simone, tu mi hai fatto venire la paura.»
Ho bisogno di convincermi che quel sentimento oscuro
e pericoloso non nasce in me, non me lo porto dentro come
qualcosa che può esplodere all’improvviso. Ho bisogno che
qualcuno se lo carichi sulle spalle.
L’istinto di mia madre non fallisce, la costruzione di un
campione nasce prestissimo in famiglia, dalla smisurata fiducia
che un genitore è in grado di far crescere in un figlio.
«C’hai ragione, me ne dovevo stare zitta.»
Ecco, ora tutto è tornato in ordine. La sera, prima di andare
a dormire, mi accoccolo vicino a lei per sentire il suo
corpo caldo premere contro il mio, un’infusione di coraggio.
Quando gareggi le domeniche sono interamente dedicate
alle corse, si preparano cibo vestiti e bici, si carica l’auto, si
parte per fare i chilometri che separano dalle gare, che possono
essere provinciali regionali o interregionali.
Quando inizio a competere, la mia famiglia si spacca: mio
padre segue Aldo, che poi smetterà nei dilettanti, e mia madre
segue me. Per diversi anni, forse i più importanti nella formazione
del carattere agonistico, mia madre è un mentore, senza
saperlo. Sento che ha un’incrollabile fede nella mia forza fisica
e mentale, ha la capacità di sopportare stress e fatica senza
darlo a vedere, una determinazione emotiva fuori dal comune.
Senza intenzione e per contatto queste sue qualità, indispensabili
per un atleta professionista, scivolano dentro di
me e formano il senso di un controllo totale sulle situazioni.
Alle gare ascolto le conversazioni che ha con le altre madri:
«Ma che cosa dai da mangiare a tuo figlio?».
«Niente, le penne in bianco alla mattina.»
«Eh sì, e com’è che vince sempre?»
«È lui, questo bambino è proprio forte.»
In me cresce un senso di straordinarietà, mi sento un superbambino
invincibile.
Mia madre ha la capacità di passare sopra alle ansie, di
normalizzarle e toglie loro la possibilità di interferire con la
mia prestazione. Quando Mario viene a prendermi a casa
prima delle gare e lei vede che sono spesso in bagno per l’adrenalina
o per l’agitazione, non dice nulla, non mi chiede
se va tutto bene, se ho paura, perché me ne sto al bagno. Fa
come se l’ansia non esistesse e così imparo a lasciarla a casa,
a non portarmela alle corse.
Quando divento più grande, continua a rafforzarmi nel
conflitto, mi si contrappone in tutto, soprattutto sulla scuola:
decide che mi devo per forza diplomare. Frequento le superiori
perché mi obbliga ma mi rompo le palle, il mio unico
pensiero è la bici. Secondo me campioni ci si nasce, tutto
viene facile, poi ci vogliono dedizione ed esperienza certo,
ma solo quando sei sulla tua strada ti senti a posto con il
mondo.
Comincio a diventare insofferente, scalpito per avere la
mia indipendenza: «Tanto anche se non sono promosso,
sono campione».
«Finché sei in casa mia fai quello che ti dico io, non m’interessa
se sei campione.»
Uscivo in bici tutti i pomeriggi fino alle sei e non aprivo
un libro.
«Ricordati che se non prendi il diploma non corri.»
Nella nostra guerra privata facevo piccole prove di resistenza,
mi tempravo nel tenere testa al mio talento e alla sua
cocciutaggine.
A scuola la professoressa di storia dell’arte mi metteva
sempre 2, 3, 4 perché non studiavo. Un giorno mi ha umiliato
davanti a tutti: «Ma che ci vai a fare in bicicletta? Pensa
a studiare che con la bici non combini niente!».
Dentro di me ho detto: “Te lo faccio vedere io cosa combino
con la bici”.
Quindici anni dopo, quando ho vinto il Giro, ci siamo rincontrati
e mi ha fatto un sacco di complimenti, ho sorriso e li
ho accettati anche se ricordavo molto bene quando mi aveva
messo in ridicolo davanti a tutti.
La mia famiglia è semplice, mio padre fa il falegname da
quando aveva nove anni, conosce l’italiano poco e male. È
un uomo taciturno, di una smisurata gentilezza, un lavoratore
instancabile. Tutto quello che c’è in casa è il suo sudore,
in famiglia ci siamo sempre sudati tutto.
Il mio talento è un vulcano, un’esplosione tale da non crederci.
A quattro anni avevo una grinta e una determinazione
che potevano cambiare il mio destino. E in questo scarto di
traiettoria ho trascinato tutta la famiglia, ero il bambino d’oro,
il minore, il più coccolato, il più dotato.
Diventa evidente quando gareggio nella categoria allievi,
ancora di più negli juniores. Ho diciotto anni, corro con
quelli più grandi di me e vinco tanto. Vinco tre internazionali
per tre domeniche di fila, dove siamo in duecento, i migliori
da tutta Italia.
Sono uno della Polisportiva di Spoltore, non ho una società
alle spalle, non mi conosce nessuno, mi presento alle
gare in mezzo a campioncini blasonati del Nord Italia che
hanno già dimostrato di saper vincere. Parto in totale svantaggio
e allora faccio l’unica cosa che so fare, corro da arrogante,
mi metto in vista appena posso, attacco sempre anche
quando so che tutto è perduto. Sono scatenato.
A Montemagno, vicino ad Asti, mi permetto di strappare
la vittoria a Valentino China, giovane promessa del ciclismo
italiano. Lo faccio di forza, di rabbia, di disperazione, con
una bici senza pretese mi metto a picchiare sui pedali a un
chilometro e mezzo dall’arrivo in salita. Nessuno pensava che
ce l’avrei fatta, che avrei dato un distacco così grande da essere
imprendibile.
A fine gara una televisione locale va a cercare China e lo
intervista, gli passo accanto in bici e mi fermo, voglio essere
inquadrato, comparire, ho una gran voglia di mostrarmi. Valentino
è ancora incredulo ma sfoggia una disinvoltura notevole
nel parlare e attribuisce il suo secondo posto a una
sua défaillance non alla mia forza. L’operatore si ferma su di
me, ho ancora la bici tra le gambe, il giornalista è costretto
a rivolgermi qualche domanda. Quando mi presenta sbaglia
il cognome e poi prosegue riassumendo in modo impreciso
l’andamento degli ultimi chilometri di gara. Io rispondo, puntualizzo,
sottolineo che questa è la mia terza vittoria consecutiva.
Insomma in un minuto e mezzo riesco a risultare il
più antipatico della terra. Non ho nessun equipaggiamento
adeguato per relazionarmi con i media, nessuna furbizia.
Davanti alla telecamera non sono nessuno, sono uno con
un marcato accento del Sud che si presenta a correre in una
squadra sfigata e si mette il gel sui capelli.