Un piccolo esercizio di realismo o di lettura, ci indica una strada che la ragione cerca di deviare: l’esistenza dell’immortalità. Solo così si spiega l’attualità dei lontani, di chi anagraficamente è morto, ma continua a vivere ed a portare esempi su un sociale che accetta il metafisico. Una traduzione simultanea della memoria che s’intinge di quotidiano, né più e né meno, dei protagonisti che fanno presenze sui giornali su carta, video e telematici. Un sentiero che si volge dribblando generazioni, per abbracciare linguaggi distanti solo nell’apparenza dei tempi, non nella sostanza dei contenuti. L’immortalità dei miti, delle leggende, dell’anima dei popoli attraverso singoli cantori, rappresenta un passo basilare della cultura, di quel soldato che ognuno cerca di avere in sé, per germogliare luce e vivere più denso quel tratto chiamato vita.
L’immortalità che viene da chi si elegge su un campo della presenza umana, che poi tracima ovunque, per stringere la mani e le menti, indipendentemente dai mestieri e dalle vocazioni, come un credo-preghiera, da prendere e ricordare quando ci si confronta o ci si applica su un tassello dell’insieme che ci circonda.
Gino Bartali, dalla genesi di ciclista, ha superato i confini del tempo e dello spazio di settore, giungendo ai patrimoni di uomini e donne non solo racchiusi nella terra italiana: è un segno di orizzonti che c’è e si menziona, tanto nella famiglia, quanto nella scuola o nel lavoro, magari una volta ogni tanto, ma poco importa. È dunque un immortale, su cui le date sono solo un convenzionale pennello d’orientamento. I patriottici o nazionalisti, lo posson definire un grande italiano; per chi scrive, che si definisce cittadino del mondo, è un faro che non ha lingua e che porta la luce aldilà dei confini, perché è. Già, gli immortali si fermano al predicato verbale.
Le cifre della sua carriera
Nato a Ponte a Ema (Firenze) il 18 luglio 1914, deceduto a Firenze il 5 maggio 2000. Completo. Alto 1.70 per 68 kg di peso. Al quinto anno delle elementari il padre Torello, lo convinse a “lavorare” nelle ore pomeridiane (senza trascurare lo studio), presso una officina di biciclette di un vicino di casa, Oscar Casamonti. E fu proprio quest'ultimo ad avviarlo alla carriera ciclistica. Cominciò a correre nel 1931: disputò undici gare e ne vinse tre, mentre nelle altre si piazzò sempre tra i primi. Dilettante nel 1933, in 29 gare disputate, furono 16 le vittorie e 7 i secondi posti. L'anno dopo, diventò Campione toscano, ma una grave caduta gli pregiudicò la stagione. Chiuse con 15 successi e 5 secondi posti. L’esordio tra i professionisti avvenne proprio nella Milano-Sanremo del 1935, che, per poco, non vinse. Concluse la carriera il 10 ottobre del 1954, nel circuito di Cologno Monzese.
Diciannove anni di attività professionistica, con un bilancio di 124 successi. Portò a termine 836 gare e percorse oltre 150 mila chilometri, circa quattro volte la circonferenza della Terra. Gino Bartali, religioso e militante nell'Azione Cattolica, reagì coraggiosamente alla morte del fratello Giulio, avvenuta nel 1936 in un incidente di gara. Una splendida carriera, ricca di prestigiosi successi, purtroppo priva di una maglia iridata, tra l’altro ampiamente meritata. Una clamorosa impresa al Tour de France 1948, in concomitanza con l'attentato a Togliatti. Il suo successo in terra transalpina attenuò la tensione e spostò l'attenzione sulla impresa del campione toscano, che, a distanza di dieci anni, si aggiudicò nuovamente la Grande Boucle.
Ecco i suoi principali successi: 11 gare a tappe: 3 Giri d'Italia (1936 - 1937 - 1946); 2 Tour de France (1938-1948); 2 Giri della Svizzera (1946-1947); Giro dei Paesi Baschi (1935); Giro Romandia (1949); G.P. Reus (1935); Giro Quattro Province (1945); 36 gare in linea: 5 Giri di Toscana (1939-1940-1948-1950-1953); 4 Campionati italiani (1935-1937-1940-1952); 4 Milano-Sanremo (1939-1940-1947-1950); 3 Giri di Lombardia (1936 - 1939 - 1940); 3 Giri del Piemonte (1937-1939-1951); 2 Giri Campania (1940-1945); 2 Campionati Zurigo (1946-1948); 2 Giri Emilia (1952-1953); Coppa Bernocchi (1935); Tre Valle Varesine (1938); Trofeo Matteotti (1946); Giro Prov. Reggio Calabria (1952); G.P. Impero (1939); 6 prove a cronometro (5 Giri Provincia di Milano: 1936-1938-1939-1940-1942); 47 tappe di Giri (17 Giro d'Italia; 12 Tour de France; 6 Giro Svizzera); 24 circuiti; 50 giorni in Maglia Rosa (15 partecipazioni); 20 giorni in Maglia Gialla (8 partecipazioni); 7 GPM al Giro e 2 al Tour. Fra i nomignoli-definizioni di Bartali, spicca per significati e realismo, questo: “l'uomo di ferro”.
La rivalità con Fausto Coppi
L’estroverso, ma pragmatico Bartali e l’introverso fantasioso Coppi, sono stati la base e la manna per le penne migliori di un tempo. Gli aspetti caratteriali dei due grandissimi, hanno dato spago ai lampi narrativi e le conseguenti trasmissioni, più che mai culturali, di autentici cantori. Ne è nato un dualismo che ha superato i confini degli eccelsi spessori dei due, fino a farne un dogma dal quale il giornalismo italiano non è mai uscito. Nei giudizi e nei racconti di chi è venuto dopo, nel ciclismo in particolare, s’è sempre cercata quella rivalità e quegli accostamenti a due, anche quando a giocarsi il palcoscenico erano campioni o semplici atleti di consistenze inferiori o assai inferiori a Bartali e Coppi. Un limite in tempi lunghi ed un vero e proprio freno per le masse destinatarie che, per questo, han vista scalfita la crescita sportiva individuale e complessiva dell’Italia. Un problema non certo imputabile ai due eccelsi pomi progenitori. Due che van visti più vicini negli epigoni di quanto possa apparire. Bartali era abituato alla rivalità. La visse giovanissimo con Aldo Bini, conterraneo e talentuoso, tanto estroverso, quanto non pragmatico. Alla fine fu questa la differenza che mantenne Gino ai vertici e che favorì l’amicizia dei due nei finali di carriera. In fondo l’estroversione non lede la caratura umana, anche se qualcuno, sottilizzando sulla superficialità, tende a dimenticarlo. Con Coppi, l’estroverso ma pragmatico Bartali, fu un involontario sprone a non cucirsi di quei dubbi e scoramenti che fanno capolino negli introversi, fino a limitare. “L’uomo di ferro”, per il suo pragmatismo, non sarebbe giunto ad una crisi più nervosa che fisica, come quella di Saint Malo per “L’Airone. E costui, nel ferro di chi non cedeva se non davvero superato, vide più nitida la strada per l’impresa, che significava elezione. Estroversione pragmatica ed introversione fantasiosa, alla fine divennero poli d’attrazione: non amici per la pelle, ma nemici rispettosi, a volte perfino esagerati nell’azzerarsi, come a Valkenburg ’48, dove a farne le spese, nella sostanza del risultato fu Vito Ortelli. Due che, senza dirlo per orgoglio, avevano bisogno l’uno dell’altro per essere se stessi. Coppi morì presto, ma nella sua difesa, di memoria e di sostanza, trovò in Bartali l’avvocato più eccelso, perché in fondo, era difendere il sé. Due dioscuri che a destini invertiti, avrebbero comunque recitato la stessa parte nel dopo. Due immortali difficili da distinguere, senza parlare di entrambi e degli opposti che li univano, non già per narrazioni, ma per essenze compensative. Due così, contemporaneamente, lo sport italiano non li ha mai avuti.
Bartali nelle mie classifiche d’ogni epoca.
Come ho sempre scritto e detto nelle occasioni pubbliche, è difficilissimo fare classifiche di tutti i tempi: nel ciclismo, quanto nello sport intero. Ci sono però dei distingui, che danno un segno di oggettività alla soggettività di uno storico: su tutti e, nettamente, lo spessore degli avversari. Un margine sufficiente per riconsiderare le conte dei palmares, che sono fredde e, prese da sole, abbastanza vicine alla follia scientifica o, addirittura, nella più piena franchezza, a forti tinte di stupidaggine
Le epoche del ciclismo non sono state uniformi negli spessori del testimoniato. Nel romanzo del pedale, ci sono stati segmenti d’eccellenza su ogni settore ciclistico, ma pure altri, come ad esempio nelle corse a tappe, dove, contemporaneamente, non si viveva altrettanto su quelle in linea e viceversa.
Non è questo lo spazio per sviscerare tutto il lavoro che ho svolto sulle personali classifiche, mescolando i vari settori. Oggi, nel Centenario di Bartali, mi limiterò ad un accenno su quelle dei Grandi Giri, rassegna che vede Gino, per gli avversari che ha avuto, eccezionali ed epocali, collocato davanti a corridori che han vinto il doppio come Hinault, o una volta e mezzo come Indurain. Davanti a Bartali solo Merckx e Coppi ed in maniera assai più risicata, Anquetil. Non aggiungo altro, basta analizzare i singoli delle epoche di riferimento.
Un aneddoto vissuto.
Per chiudere questa brevissima e monca occasione di ricordo dell’immenso Gino, un episodio che mi vide testimone.
Accadde il 22 marzo 1996, il giorno prima della Milano Sanremo. Per la prima volta, ebbi occasione di partecipare a quello che poi diverrà un appuntamento a me caro: il Premio Tre Pini di Milano. La famiglia Cortesi, di origine toscana, titolare del celebre Ristorante, appassionatissima di ciclismo, organizzava quell’appuntamento a pranzo del venerdì precedente la Classicissima, allora sempre proposta di sabato. Il Premio s’orientava verso ciclisti, operatori o dirigenti che si erano particolarmente distinti nella stagione passata e l’occasione sapeva radunare il meglio del ciclismo mondiale . Quell’anno, Fabiana Luperini, che correva nella mia Sanson, aveva conquistato la prima delle tre consecutive doppiette Giro-Tour, ed era ovviamente fra i premiati. Assieme a lei, fu invitato il sottoscritto più un accompagnatore che, nel nostro caso, rispondeva alle generalità di Piatèl, nomignolo-distinguo di una brava persona che, per la siamese popolarità, s’associava a lui ben prima di nome e cognome.
Con un’ammiraglia partimmo dalla Romagna per giungere a casa di Fabi, in quel di Cascine di Buti e, di lì, con lei, attraverso la Cisa, viaggiammo in direzione Milano. Un bel mazzetto di centinaia di chilometri. Per Piatel, che guidava, un peso ulteriore s’aggiunse nella mitraglia di parole, progetti e programmi che il sottoscritto discuteva con Fabi, non ultimo il libro che su di lei doveva nascere (e che, in parte, nacque). Fatto sta, che una volta giunti a Milano, il buon Piatel si perse (allora non c’erano navigatori) e né io né Fabi potemmo essere d’aiuto. Poi, d’improvviso, su una via alla nostra destra, scorsi una berlina giallognola, sui cui lati giganteggiava la scritta: Cicli Bartali. Immediatamente dissi a Piatel di seguire quell’auto, perché avrei scommesso che si dirigeva anch’essa al Ristorante Tre Pini. Certo, c’era la possibilità che fosse destinata alla punzonatura della Sanremo, ma quella non era un’ammiraglia e l’orario era particolare. Le perplessità di Piatel, comunque impegnato nell’inseguimento, non si sciolsero nemmeno alle parole di Fabi: “Per me chi guida quella, è proprio Ginettaccio. Ha più di ottant’anni, ma guida ancora come ne avesse trenta. Così m’han detto”. Ed infatti, quell’auto, per decisione di marcia e velocità, impegnò Piatel come fosse a tutta lungo la discesa del Gavia, ma fu bravo, perché seppe “tenere la ruota” di quel navigatore scaltrissimo, fino a giungergli in scia, proprio davanti al Tre Pini. Parcheggiammo dietro quella berlina giallognola che avevamo visto occupata dal solo conducente E quando scese quell’occupante, autore involontario della buona riuscita del nostro viaggio, con stupore e semi-coccolone di Piatel, potemmo tutti verificare che si trattava di Bartali in persona. Sorridente e con passo veloce Gino si diresse verso di me e mi salutò con una partecipazione che mi lasciò di stucco: prima di quell’occasione ci eravamo visti una sola volta, ed era impossibile che si ricordasse di me. Forse mi confondeva con qualcun altro. Ovviamente lo ringraziai non poco per averci aiutato a giungere fin lì e lui mi rispose raggiante: “Devi capì che Milano è un po’ la mi asa”. Impegnato a salutare tanta gente, Gino, non disse nulla a Fabiana e non perché si trattava di una pisana…. La Luperini ci rimase un po’ male, ma non tutto era perduto. Dopo un lasso di almeno dieci minuti, passati a stringere mani e cospargere l’ambiente di echi cavernosi come da sua inconfondibile voce, il buon Bartali tornò sui suoi passi, ed andò dritto da Fabiana, abbracciandola e complimentandosi con lei, come fosse la nipotina che gli aveva regalato una promozione a pieni voti. Gli occhi di Fabi s’illuminarono, mentre io e Piatel capimmo, che quello lì era proprio “l’uomo di ferro”.
Maurizio Ricci detto Morris