Ieri era il 13 giugno........ Camila Giorgi, sull’erba d’Hertogenbosch, m’ha ricordato ciò che scrissi e che oggi vi lascio.
Per tanti anni quella data è stata una ricorrenza, un grumo di ricordi echeggianti sugli sfondi di “A trick of the tail”, un LP dei Genesis, uscito nella tarda primavera di quell’anno, il 1976, che voglio riportare all’oggi, sulle ali di un campione che tanto mi ha fatto divertire e che gemellai all’ascolto e alle emozioni di quel disco: Adriano Panatta.
Erano i tempi del tennis per me: si sublimavano nelle letture che poi sfociavano senza ripasso alcuno, in esami….. E fra Wright Mills, Talcott Parsons, David Hume, Adam Smith, August Comte, i miei occhi, sempre più curiosi, allora sostenuti dalla forza e dai sogni giovanili, si dividevano fra Antonio Gramsci e quel ragazzone romano con un braccio che ricamava.
La settimana che portò al 13 giugno, la consumai a Canazei, in una casa che volgeva i suoi occhi falsamente chiamati “finestre”, verso il Gran Vernel, imperioso e suggestivo ad ogni singolo sguardo e quando la musica era lontana, per doveri d’apparenza, una piccola cascata arricchiva di note i miei voli. Che gradevole segmento!
Intanto Gerda, impreziosita dall’animosità dei suoi anni che eran quelli dei fiori, mi donava i suoi sguardi dal bazar adiacente, in attesa della libertà di quegli orari che, lo studentello sottoscritto, ancor non immaginava sì circuenti la vita. Lei mi aspettava con quel sorriso che illuminava un viso perennemente abbronzato e quasi in contrasto col fascio di luce di quei capelli biondi che ho sempre voluto pensare tinti, quando, in realtà, erano naturali come la sua voglia di vivere le emozioni, con l’intensità del non pensare al domani. Precisa, alle diciannove e cinque minuti, Gerda si liberava fra le mie braccia che non aspettavano altro, nonostante il timore che la foga potesse, in qualche modo, urtare quel nasino uscito postumo dal pennello di Raffaello. L’oscurità arrivante s’univa pian piano al blu scuro dei suoi occhi, mentre s’avvicinava la porta di quel rifugio che la spinta della passione e del cuore, ci faceva apparire grande come il mondo.
Ancor oggi, non so chi di noi due sia stato più oggetto nelle rispettive proiezioni, ma quel che fa l’infatuazione nessun amore descritto o studiato, illuminato o poetico, può fare. Forse perché è proprio l’infatuazione, col suo breve ed intenso segmento a scoprire la perfezione di un amore che, fra due persone, mai potrà rendersi cosmico per le leggi delle nostre imperfezioni.
Gerda, era la gratificazione luccicante di quei miei giorni di letture e di tennis, ed io ero per lei quel qualcosa che non va mai bene narrare oltre i significati delle sensazioni, anche a se stessi. Un radioso incontro che impreziosiva il cuore, di fronte alla profondità del pensiero gramsciano che imparavo a conoscere e le misure dei voli emozionali di quel ragazzo romano che ricamava, con la racchetta, ciò che può fare un polso.
Sì, caro Adriano, una parte consistente di quelle giornate me le donavi tu, con quella volontà di recuperare perfino un match point a quel talento cecoslovacco, poi smarritosi chissà come, il cui nome risuonava all’anagrafe come uno da scacciare: Pavel Hutka. E poi, con l’arte che ti riusciva quando il fisico ti reggeva, superasti un altro talento, classico e fragile forse anche più di te, Zeliko Franulovic.
Arrivò il turno del freddo candelotto svedese, colui che ai miei occhi resterà sempre un campione “distorsore”, per quel rovesciaccio obbrobrioso a due mani, con quel portamento silenzioso che non lasciava tradire, né signorilità, né sentimento, né umanità: Bion Borg. Esclamai ed urlai per te, mentre via via si concretizzava la tua lezione di tennis al giovanotto che pareva imbattibile e che tu stendesti con un autentico capolavoro. Quando conquistasti il punto dell’incontro guardai il Gran Vernel: pareva tremare come fosse collegato alla mia adrenalina. Avevi dimostrato grandezza per chi s’era distratto nella logica, ma tu eri un australiano nel gioco e qualcuno lo sapeva.
Arrivò in semifinale un altro mostriciattolo bimane, Eddie Dibbs, ed anche per lui la doccia dell’eliminazione.
In finale, ti trovasti Harold Solomon, il gemello ortodosso di Dibbs, ma anche per lui, le tue lezioni di volèe, veroniche e smorzate, furono invincibili. Il Roland Garros finì ai tuoi piedi, Adriano. Stavolta, la mia adrenalina non si fermò nemmeno alla presenza del caldo corpo di Gerda: la presi in braccio e la portai dietro casa, sotto la flebile cascata di acqua sì gelida, da trasformare il liquido, in lame. Fu una grande sensazione….. che pagammo il giorno dopo, quando ambedue non riuscimmo ad uscire da una stanza che il linguaggio più decoroso, ci impone di chiamare “toilette”.
Non l’ho dimenticato, era il 13 giugno di 39 anni fa.....
Maurizio Ricci detto "Morris"
Per tanti anni quella data è stata una ricorrenza, un grumo di ricordi echeggianti sugli sfondi di “A trick of the tail”, un LP dei Genesis, uscito nella tarda primavera di quell’anno, il 1976, che voglio riportare all’oggi, sulle ali di un campione che tanto mi ha fatto divertire e che gemellai all’ascolto e alle emozioni di quel disco: Adriano Panatta.
Erano i tempi del tennis per me: si sublimavano nelle letture che poi sfociavano senza ripasso alcuno, in esami….. E fra Wright Mills, Talcott Parsons, David Hume, Adam Smith, August Comte, i miei occhi, sempre più curiosi, allora sostenuti dalla forza e dai sogni giovanili, si dividevano fra Antonio Gramsci e quel ragazzone romano con un braccio che ricamava.
La settimana che portò al 13 giugno, la consumai a Canazei, in una casa che volgeva i suoi occhi falsamente chiamati “finestre”, verso il Gran Vernel, imperioso e suggestivo ad ogni singolo sguardo e quando la musica era lontana, per doveri d’apparenza, una piccola cascata arricchiva di note i miei voli. Che gradevole segmento!
Intanto Gerda, impreziosita dall’animosità dei suoi anni che eran quelli dei fiori, mi donava i suoi sguardi dal bazar adiacente, in attesa della libertà di quegli orari che, lo studentello sottoscritto, ancor non immaginava sì circuenti la vita. Lei mi aspettava con quel sorriso che illuminava un viso perennemente abbronzato e quasi in contrasto col fascio di luce di quei capelli biondi che ho sempre voluto pensare tinti, quando, in realtà, erano naturali come la sua voglia di vivere le emozioni, con l’intensità del non pensare al domani. Precisa, alle diciannove e cinque minuti, Gerda si liberava fra le mie braccia che non aspettavano altro, nonostante il timore che la foga potesse, in qualche modo, urtare quel nasino uscito postumo dal pennello di Raffaello. L’oscurità arrivante s’univa pian piano al blu scuro dei suoi occhi, mentre s’avvicinava la porta di quel rifugio che la spinta della passione e del cuore, ci faceva apparire grande come il mondo.
Ancor oggi, non so chi di noi due sia stato più oggetto nelle rispettive proiezioni, ma quel che fa l’infatuazione nessun amore descritto o studiato, illuminato o poetico, può fare. Forse perché è proprio l’infatuazione, col suo breve ed intenso segmento a scoprire la perfezione di un amore che, fra due persone, mai potrà rendersi cosmico per le leggi delle nostre imperfezioni.
Gerda, era la gratificazione luccicante di quei miei giorni di letture e di tennis, ed io ero per lei quel qualcosa che non va mai bene narrare oltre i significati delle sensazioni, anche a se stessi. Un radioso incontro che impreziosiva il cuore, di fronte alla profondità del pensiero gramsciano che imparavo a conoscere e le misure dei voli emozionali di quel ragazzo romano che ricamava, con la racchetta, ciò che può fare un polso.
Sì, caro Adriano, una parte consistente di quelle giornate me le donavi tu, con quella volontà di recuperare perfino un match point a quel talento cecoslovacco, poi smarritosi chissà come, il cui nome risuonava all’anagrafe come uno da scacciare: Pavel Hutka. E poi, con l’arte che ti riusciva quando il fisico ti reggeva, superasti un altro talento, classico e fragile forse anche più di te, Zeliko Franulovic.
Arrivò il turno del freddo candelotto svedese, colui che ai miei occhi resterà sempre un campione “distorsore”, per quel rovesciaccio obbrobrioso a due mani, con quel portamento silenzioso che non lasciava tradire, né signorilità, né sentimento, né umanità: Bion Borg. Esclamai ed urlai per te, mentre via via si concretizzava la tua lezione di tennis al giovanotto che pareva imbattibile e che tu stendesti con un autentico capolavoro. Quando conquistasti il punto dell’incontro guardai il Gran Vernel: pareva tremare come fosse collegato alla mia adrenalina. Avevi dimostrato grandezza per chi s’era distratto nella logica, ma tu eri un australiano nel gioco e qualcuno lo sapeva.
Arrivò in semifinale un altro mostriciattolo bimane, Eddie Dibbs, ed anche per lui la doccia dell’eliminazione.
In finale, ti trovasti Harold Solomon, il gemello ortodosso di Dibbs, ma anche per lui, le tue lezioni di volèe, veroniche e smorzate, furono invincibili. Il Roland Garros finì ai tuoi piedi, Adriano. Stavolta, la mia adrenalina non si fermò nemmeno alla presenza del caldo corpo di Gerda: la presi in braccio e la portai dietro casa, sotto la flebile cascata di acqua sì gelida, da trasformare il liquido, in lame. Fu una grande sensazione….. che pagammo il giorno dopo, quando ambedue non riuscimmo ad uscire da una stanza che il linguaggio più decoroso, ci impone di chiamare “toilette”.
Non l’ho dimenticato, era il 13 giugno di 39 anni fa.....
Maurizio Ricci detto "Morris"