Nous étions jeunes et insouciants (LII)
Con Guimard, va a finire sempre male
Arrivando a Lione per la partenza del Tour 1991, mi accorsi che tutti sapevano del "punto di non ritorno" esistente fra me e Guimard, anche se gli articoli dei giornali evocavano solo un possibile divorzio e con un linguaggio misurato e abbastanza edulcorato. Ciascuno insomma si teneva dentro tutto ciò, per non compromettere una "Grande boucle" ormai imputridita dalle circostanze. Però il meno che si possa dire è che il buon umore non si aggirava da quelle parti.
Guimard, che aveva naturalmente un accesso privilegiato ai miei compagni di squadra, perché costoro pensavano prima di tutto alla loro carriera (ed è anche comprensibile), non si lasciò mancare niente, alimentando le storie più scabrose e rocambolesche a cui poteva pensare.
Oso appena immaginare, vista la sua posizione dominante, quello che abbia potuto raccontare su di me durante questo periodo di grande turbamento, tanto più che io, più solitario di sempre, non avevo né la voglia, né il gusto di lanciarmi in complotti contro Guimard; avevo altro da fare. C'era inoltre un prezzo da pagare alla mia onestà: andare a sparlare di Guimard non era degno di me, non m'interessava nemmeno.
Nostalgico del niente, il mio lato "coltello fra i denti" mi offriva lo spessore dell'uomo maturo che sa quel che fa e perché, ma non ero né triste, né lieto, né sereno, né rassicurato e navigavo fra due lati, entrambi poco confortevoli, nella posizione di "leader" storico contestato sia dai fatti (i miei risultati) sia dal direttore sportivo unico (in tutta la mia carriera).
Dovevo essere ben solido per non cadere in depressione, accerchiato, com'ero, da tutte le parti.
Il risultato nel prologo fu poco rassicurante: 64° a 22" da T. Marie, a 20 secondi da Breukink e 19 da Lemond, ma, a dire la verità, le circostanze sfavorevoli mi avevano, come dire, rinvigorito, o meglio l'idea di abbassare le mie ambizioni, che mi era entrata in testa nei mesi precedenti, si era evaporata, come l'altra di smettere con il ciclismo. Avevo ormai capito che era impossibile per un atleta di alto livello di 30 anni mettere un termine preciso alla carriera, una volta entrato in un periodo così complesso. Diciamo che non avevo le stesse percezioni di prima e sopratutto nessuna certezza. Certamente avevo l'esempio di B. Hinault, caparbio, che si era fissato un limite preciso nel tempo e non aveva derogato, ma quello non sarebbe stato il mio caso.
Come terminare la carriera in apoteosi? E quando? Avrei dovuto smettere a 29 anni, quando ero ancora giovane? Ma come fare, se pensavo che la stagione seguente sarebbe stata altrettanto fruttuosa? Dall'altro lato, come potevo chiudere dopo una sconfitta? Non era il mio genere, il mio stile, la mia maniera d'essere. Volevo riscattarmi, sapendo anche che le questioni di ordine finanziario rientravano nelle mie riflessioni: questo mestiere l'amavo veramente e poi non avrei saputo fare altro per guadagnarmi la vita molto bene. Non immaginavo che tutto ciò poteva significare la famosa "stagione di troppo", perché non ero preparato a quell'ipotesi.
Durante la seconda tappa, una cronometro a squadre di 36,5 Km, ho partecipato attivamente alla buona prestazione di Castorama: 8 secondo dopo l'Ariostea. Oltre a Leblanc, che faceva di tutto per rovinarmi l'esistenza, contavamo nei nostri ranghi C. Lavainne, D. Arnould, J.C. Bagot, B. Riis, P. Simon, F. Vichot e T. Marie e quest'ultimo dette una grande gioia alla squadra, vincendo la sesta tappa, dopo una fuga di 234 Km.
Le mie illusioni durarono poco, arrivai solo 16° nella crono individuale di 73 Km, fra Argentan ed Alençon a 3'39" da M. Indurain, che firmava allora, senza saperlo il lungo contratto della sua supremazia. Quanto a me, non sapevo che pensare del mio stato di forma, perché paradossalmente, non mi sentivo male, né per il fisico, né per quanto riguardava la mente, come gli avvenimenti seguenti avrebbero provato.
Il superamento dei Pirenei avrebbe cambiato i dati: nella tappa di Jaca, in effetti, Leblanc si inserì in una fuga con C. Mottet e prese la maglia gialla. Guimard era pazzo di gioia, perché non solamente il suo nuovo protetto riusciva in uno dei colpi di mano, di cui ha avuto il segreto in tutta la sua carriera, ma mi costringeva anche al gioco di squadra. Come non lavorare per la maglia gialla? Così nella grande tappa, fra Jaca e Val-Lauron, attraverso L'Aubisque, il Tourmalet e l'Aspin, ho lavorato lealmente per un tipo che voleva solo il mio male, svolgendo un ruolo di gregario e di protettore. Fino ad un certo punto, almeno. Dopo una "défaillance" limitata nel Tourmalet, compensata da una buona discesa, ero con i migliori nella scalata dell'Aspin. Là, Bugno ha attaccato e Mottet ha contrattaccato ed io li ho marcati immediatamente per proteggere Lebalnc, ma quest'ultimo non è riuscito a tenere il contatto. Malgrado la giovinezza e la grande forma, mostrava lo spessore dei suoi limiti (nota mia: chissà perché, ma a me sembra che G.B. Vico abbia ragione
) e un gruppo "regale" (Bugno, Chiappucci, Indurain ...) si staccò dal resto e sono diventato 4° in classifica generale, davanti a Leblanc.
Le tensione si esacerbarono, ma io avevo talmente pena di vedere che nessuno dei corridori presenti avesse memoria del mio passato, dimenticare chi ero e di quello che avevo fatto e purtroppo, una sera ad Albi, fui, durante un pasto, l'epicentro di un litigio memorabile, che ebbe per attore principale ... tutta la squadra
. Soggetto della discussione: Luc Leblanc, tono: arrabbiato, protagonisti, con le parole più violente del vocabolario, Guimard e il sottoscritto. Si riscopriva il dispiacere di rivolgersi la parola (si fa per dire, perché era solo rumore e fracasso)
Dopo esserci trattai con "tutti i titoli" ho ben visto l'atteggiamento detestabile degli altri membri della squadra, perché tutti mi rivolgevano sguardi sena equivoci possibili.
Ero lì, solo, a difendere il mio onore, il solo a dire a Guimard che cosa pensavo del suo modo di gestire la squadra ed il solo ad affermare, di passaggio, per ciascuno di loro che cosa pensavo di Leblanc, capace dei peggiori "tradimenti" come lo dimostrerà tutto il resto della sua vista di ciclista. Non ho nessuna stima di questa persona "Il piangina" come è stato soprannominato, non merita nemmeno qualche parola di un libro.
Nell'Alpe d'Huez avevo ritrovato una parte della mia potenza, che fu sufficiente a farmi arrivare 9° e quindi, se pur furtivamente e leggermente in ritardo, mi ritrovavo felice nella cerchia dei grandi, anzi ciò mi faceva un bene "pazzo".
Tuttavia la tappa era stata ridotta ai minimi termini: 125 Km e la cosa non mi aveva certo avvantaggiato.
Mi dispiace soprattutto che in quell'anno si sia aperta definitivamente quella nuova era ridicola della riduzione delle difficoltà che, invece di frenare l'aumento del doping, permetteva al contrario a dei corridori medi di aiutarsi meglio e poter così superare degli "scogli" limitati e frazionati nel tempo. Ciò che si poteva ormai fare su 130/150 Km, non si sarebbe mai prodotto nelle tappe con più di 200 Km. La selezione naturale era ridotta quasi a niente. Nel ciclismo su strada non bisogna mai confondere la corsa dura con quella veloce ed invece simile "evoluzione" sarebbe stata mortifera, anche se nessuno, da vent'anni ha voluto ammettere questa realtà. Sei mesi prima, durante la presentazione del Tour, l'avevo detto chiaramente a J.M. Leblanc, direttore del Tour, che non condivideva però la mia opinione, evidentemente. E rammento che gli avevo anche descritto esattamente ciò che si sarebbe prodotto dal punto di vista sportivo, ma non mi aveva voluto ascoltare. (Nota mia: con due Leblanc non si fa neppure una persona
)
A 11'27" da Indurain, ho finito il Tour al 6° posto, dietro Bugno, Chiappucci, Mottet e Leblanc, perché quest'ultimo era riuscito a superarmi nelle ultime tappe, ma quel fatto, secondo me, non aveva molta importanza, perché la mia prestazione era stata più che onorevole, basata soprattutto sulla mia caparbieta ed esperienza che erano aspetti ben visibili.
Rientrando a casa, mi sono sentito libero, da Guimard, da questa squadra diventata ostile, ero finalmente libero d'essere pienamente me stesso, lontano dagli sguardi di chi voleva il mio male.
Con Cyrille, dunque, finiva sempre male e, nonostante fossi stato una vittima, quei mesi rappresentano uno dei momenti più difficili della mia carriera/vita.
Per la prima volta non avevo più la preoccupazione della squadra di cui ero, in teoria, co-patron ed anzi era come se non avessi più squadra, anche se, nonostante tutto, non avevo corso il tour in maniera individuale. Avevo corso senza C.G. senza i suoi "consigli" e il suo "sostegno" ed ero comunque arrivato sesto ed in più nessuno mi poteva rimproverare di non avere rispettato le consegne in favore della squadra, in specie quando Leblanc portava la maglia gialla.
Ma la verità mi obbliga a dire che talvolta le "consegne" di Guimard erano così grottesche e così pregiudizievoli per me, che non potevo rispettarle "alla cieca". Ad esempio, nella tappa che arriva a Morzine, a 100 Km dall'arrivo Guimard avrebbe voluto che mi lanciassi in una fuga solitaria. Naturalmente avevo detto di no: voleva arrostirmi ed io non volevo invece bruciarmi inutilmente. E ripensandoci, non mi riesce di accettare ciò che è accaduto in quel Tour, dopo dieci anni di intimità con lui, qualche sentimento più nobile sarebbe dovuto restare a guidarlo. Ma no, Guimard era incapace di farsi portatore di sentimenti che lo sorpassavano!
Quindi mi sono lasciato con lui all'incirca negli stessi termini di Hinault otto anni prima, curioso no? Chi avrebbe potuto credere possibile una cosa simile? Ma con Guimard, ripeto, finisce, sempre male.
Tutte le separazioni sono brutali e crudeli e non gli do "tutti i torti", perché devo ammettere il mio errore supremo: per rispettare il mio ciclo psicologico e sportivo, avrei dovuto cambiare squadra ogni quattro anni.
Dopo il Tout ho fatto quello che volevo e sono andato dove volevo, però il mio avvenire restava incerto, anche se tutti sapevano che volevo/dovevo cambiare squadra. E in quel caso, anche se può sembrare impossibile, mi sono sentito ... come perso, completamente.
Ho creduto, in buona fede, che il mio nome, da solo, insieme al mio palmarès, sarebbe stato sufficiente e ... che le proposte si sarebbero susseguite, per me era una cosa sicura. E invece niente, niente di niente, il telefono non suonava, nessuno mi voleva.
Questo silenzio fu per me di una ferocia incredibile e non soltanto un sentimento di ingiustizia. Ma riflettendo meglio avevo finito per comprendere che facevo paura a tutti, a cominciare dai direttori sportivi che certamente Guimard aveva "scaldato" dietro le quinte.
Una mattina mi sono detto: "Bon, bah finisco qui la mia carriera!" Poi, però non volendo chiudere senza almeno reagire, sono stato io a prendere il telefono, perché in effetti non c'era niente di umiliante a cercare di "sminare" da solo il terreno; d'altra parte non mi potevo lasciar spingere verso la fine senza almeno tentare di reagire.
Dapprima ho avuto contatti con Panasonic, ma le loro condizioni economiche erano veramente troppo al di sotto di ogni ... per continuare i sacrifici fisici che il mestiere comporta, mi occorreva un "minimo" di considerazione. E poi lo sponsor Gatorade, che aveva interesse al mercato francese, mostrò ... e l'affare si fece in un attimo ed ero molto contento.
I rigori dell'inverno gelarono definitivamente le mie relazioni con Guimard: noi avevamo separato i nostri affari, ma lui voleva continuare con la squadra e pertanto conservò Maxi-Sports. Poiché mi doveva molti soldi e non aveva abbastanza liquidità, mi ha passato l'intiera proprietà di alcuni immobili societari. In nessun momento mi sono dovuto lamentare di questa divisione finanziaria e tutto fu fatto dai nostri avvocati, secondo le regole. Certuni ritrovano la loro serietà ... quando si tratta di soldi.