Nous étions jeunes et insouciants (XL)
Come la fine del mondo
Al sommo della gloria, nel 1984, avevo dichiarato, con l'arroganza di quelli che sanno chi sono, ciò che avevo e che avrei fatto: " Correrò fino a 30 anni e poi vivrò di rendita." Era una frase roboante, ma sincera, simbolo della maniera di comportarmi talvolta. Pero, va detto, che gli anni non rispettano sempre le nostre previsioni ed io non avrei mai pensato alla mia operazione, con conseguente anno di "riposo", né ai danni fisici che avrebbe comportato. Ora mi rendo conto che dire ciò era stato piuttosto stupido, così come voler giocare con la propria sorte, perché poi questo genere di affermazioni ti incatena. Dopo, quando mi chiedevano ... ho sempre mostrato incertezza riguardo al tempo che mi rimaneva. Prevedevo di già non bene il Tour 1987 che stava arivando, però la fine della mia avventura in gruppo andava al di là di ogni mia immaginazione.
Sapevo meglio di molti che la "Grande Boucle" non perdonava niente e metaforicamente si può dire che la vita di tutti gli uomini è sicuramente inserita nel sortilegio di una "grande boucle": alla gioia immensa, può seguire una grande pena e la strada gira e rigira. Mi ero creduto molto forte, anche se non invinciìbile, ma il destino aveva duramente picchiato alla porta delle mie illusioni e ciò mi era chiaro in quell'estate 1987, e questa situazione la trovavo esasperante. Da due anni ero l'ombra di me stesso e mi riusciva male esprimere questi sentimenti, ma avvertivo tutto ciò come un animale sente il temporale che sta per arrivare. Le persone non si rendeno conto veramente di quanto il ciclismo sia difficile e non si sono mai domandati perché i più grandi "spiriti" del XX secolo hanno sempre paragonato il nostro sport alla boxe riguardo alla loro (comune) durezza eccezionale.
Per mezzo del Tour, ancora una volta, avrei saputo a che punto mi sarei trovato, anche se temevo di saperlo. Oltre ad essere in uno stato di forma aleatorio, sono arrivato soprattutto in cattive condizioni mentali, nel senso che mi mancava quel clic psicologico che avrebbe cancellato i miei dubbi e quelli degli altri intorno a me. E poi i problemi della squadra si invelenivano e l'ambiente era estremamente teso: il nostro sistema stava eplodendo. Il patron sarebbe stato Guimard, ma non era tale nel vero senso del termine e quindi dentro di noi, anche se forse non volevamo ammetterlo, cominciavamo tutti a dubitare gli uni degli altri. Guimard dubitava assai del mio ritorno ai vertici ed io delle sue competenze in tempi di crisi e come amministratore e tutto ciò non faceva migliorare le cose!
Il prologo a Berlino fu una catastrofe (72°), indegno! Non rammento neppure quale fu la mia reazione, né quali furono gli sguardi degli altri su di me. Nelle prime tappe fu come se proprio non ci fossi: il mio corpo pedalava, ma il mio spirito divagava e produceva il niente.
Mia moglie, Nathalie, doveva partorire ed io pensavo molto alla paternità e partecipare al Tour in quelle ore importanti mi pareva piuttosto strano, addirittura incongruo. Ciò non spiega le mie contro-prestazioni, ma comunque la voglia di fuggire era palpabile in me ed in ciascuna delle mie azioni.
Come in una galleria oscura, allorché mi ritrovavo in una situazione di corsa un po' calda, avevo sempre la tendenza a rinchiudermi, mentre in precedenza sarei riuscito quasi sempre ad ottenere qualche vantaggio.
Guimard, sempre in primo piano per quanto riguarda le innovazioni tecniche, ci aveva obbligato a portare (siamo stati i primi) il cardio-frequenzimetro, che, secondo lui, avrebbe rivoluzionato la conoscenza sulle risposte somatiche allo sforzo. Dopo alcuni esperimenti, i medici mi avevano consigliato di non superare le 165 pulsazioni al minuto, perché al di là c'è di sicuro "l'esplosione" in poco tempo. All'inizio l'avevo preso alla leggera, ma dopo mi venne quasi un riflesso condizionato e, quando vedevo quel numero 165, rallentavo e mi era impossibile spingere di più.
Infatti ho compreso in seguito che qualche cosa in me rifiutava di varcare una certa soglia del dolore e tuttavia, preso atto delle mie condizioni, mi sono messo del ttutto spontaneamente e con notevole zelo al servizio di C. Mottet, che era ben piazzato nella generale. Gregario di lusso, da questo punto di vista non avevo un ego sbagliato, anzi, perché ormai conoscevo molto bene la depressione della sconfitta. Devo precisare che il comportamento degli altri verso di me era radicalmente cambiato e dal 1986 vedevo i giornalisti allontanarsi e ricevevo anche molte meno lettere. Tutto ciò mi sembrava normale ma un uomo non è mai preparato a questo genere di situazioni. Quello che invece non mi sembrava normale era che si dimenticasse tutto quello che uno aveva fatto: un corridore che ha vinto due volte di seguito il Tour dovrebbe sempre valere due Tour agli occhi degli altri.
Invece il mio caso era diverso, mi trovavo totalmente svalutato, ma perché? Anche le entrate finanziarie scivolavao verso il basso ed anche questo mi sembrava strano, perché se comprendevo bene che si fosse interessati "in primis" a quello o quelli che erano più invista, non capivo perché gli organizzatori non volessero più sentir parlare di me alle tariffe di prima. Francamente solo il ciclismo funziona in questo modo! Mi ricordo di essermi arrabbiato con l'organizzatore della Sei Giorni di Parigi che mi voleva far correre molto al ribasso. Io non sarei stato contrario ad una trattativa, ma non potevo scendere sotto un limite che mi pareva degradante e quindi preferivo non correre che accettare una simile umiliazione.
Ritornando al Tour, ero come in apnea fino alla famosa cronometro del M. Ventoux. Cima mitica, luogo di tutte le rappresentazioni ciclistiche, teatro maestoso, frontiera simbolica nord-sud, santuario alla memoria di Tony Simpson. Fu là che J.F. Bernard realizzò l'exploit che si sa, buttandosi in lacrime, all'arrivo, fra le braccia del suo guru: B. Tapie. Il patron contava già i dividendi e faceva dirigere su se stesso le telecamere del prestigio, mentre il corridore come un figlio, ma piuttosto uno schiavo, arrivò là, come sull'altare del sacrificio, all'apogeo di una carriera che aveva già in sé il gene della propria perdita, ben prima della sua naturale scadenza.
In questa salita, invasa dalla folla, avevo deciso di mettere dentro tutto me stesso, assolutamente tutto. La motivazione, la concentrazione, la voglia di vincere, ma purtroppo non è accaduto niente di tutto ciò, ma al contrario sembrava, il mio, un colpo di pedale da cicloamatore e poi il vuoto, prima del niente.
Tutto è terminato di colpo: troppa emozione, troppo di tutto, non posso dire altro, se non leggere in questo tutta la mia autenticità: 64° a quasi dieci minuti da J.F. Bernard
Mio figlio era nato il giorno prima ed io avevo bisogno di ritornare a casa. Durante l'ascensione alcuni spettatori che sapevano, mi avevano gridato: "Vai papà!" Ma io non andavo avanti, soffrivo, ma d'altra parte era il Ventoux.
Rientrando nel minibus, sono crollato: "Non ritornerò più" ho pensato e, lontano da ogni sguardo, ho pianto a lungo.
La sera un giornalista, incrociato in albergo, mi ha chiesto se Bernard era il mio successore ed io ho risposto che ciò voleva dire che io ormai ero morto e sotterrato? E lui "E' possibile." Allora questa per me è una motivazione supplementare per mostare a tutti che hanno torto.
Ero in uno stato di rabbia assoluta ed avevo la sensazione che sarebbe stata la fine e che non avevo più un posto nel ciclismo. Mi sono accorto in seguito che avevo invece bisogno di toccare il fondo, prima di rinascere. Andare ancora avanti nella depressione, prima di rimontare in sella.
Dopo il Ventoux e gli episodi descritti, non potevo certo più abbandonare, perché volevo dimostrare che potevo ancora stupire.
Il giorno dopo ho visto il profilo ed abbiamo deciso di saltare il rifornimento. Eravamo di nuovo in azione.
E' il giorno in cui Bernard ha perduto tutto. Una volta indietro, i suoi compagni avrebbero voluto rientrare immediatamente, ma lui, per niente ansioso, aveva rifiutato, affermando: "C'è tutto il tempo per rientare." Errore grossolano, perché lì davanti si era formata una grossa coalizione.
Io, grazie all'orgoglio, avevo ritrovato delle gambe passabili e la mia collera era indirizzata anche al maledetto cardio-frequenzimetro e quindi lo girato in modo da non doverlo più vedere e questo fatto è stato alquanto liberatorio.
Il giorno dopo sono arrivato 6° all'Alpe d'Huez e il giorno ancora dopo ho vinto a La Plagne una tappa di prestigio, nonostante non avessi spinto a fondo. Insomma non meritavo di essere completamente condannato in questo Tour. Anche se molto diminuito, ero arrivato 7° in classifica a 18 minuti, più o meno quanto avevo perso nelle cronometro, mentre la mia regolarità in montagna era un segno di qualcosa.
Due o tre giorni dopo i Campi Elisi steso su un divano, mi sono seriamente interrogato sulla mia capacità di rivincere il Tour. ???
La fine della stagione 1987 mi portò qualche risposta che però mi affossò ancora di più. Dopo il T. di Catalogna, dove Guimard raggiunse il minimo in termini di organizzazione e ci volle il soccorso di altre squadre benefattrici per soccorrerci nei nostri bisogni più elementari (il colmo per la più importante squadra francese), dovetti subire una sconfitta clamorosa al G.P dell Nazioni che avevo scrupolosamente segnato nel mio calendario delle occasioni ... (mancate
) !
Eravamo a fine stagione e, per l'occasione (un po' forse per il gusto di "esplorare le catacombe") ho testato un nuovo prodotto che molti avevano sperimentato con successo ed altri ptetendevano fosse formidabile. Ho ceduto alla tentazione, alla facilità, lo confesso!
"Fortunantamente" ho avuto un mal di testa spaventoso ed ero completamente bloccato e quella fu l'ultima volta che presi quel prodotto.
Morale: più uno è debole psicologicamente, più presta il fianco a ...
Questo non era solo il fondo del mio ciclismo che toccavo, ma il fondo stesso della mia intimità, della mia personalità.
Chi ero io ormai? Più cercavo dentro di me, più il mio essere faceva acqua da tutte le parti; io, come mi pensavo, non esistevo più. La mia classe da sola non era sufficiente per coltivare le mie illusioni ed ero diventato vulnerabile, alla mercé di ogni mio difetto.
Se vogliamo essere seri ed onesti, se non mi fossi chiamato Laurent Fignon, se non avessi avuto un Carattere e un modo alto di vedere la vita, sarei potuto cadere in non so quale abisso o follia e vendere la mia anima ad un qualsiasi venditore di chimere. Ne ho conosciuti di corridori che, a forza di doping, droga, alcol hanno finito per cambiare completamente e mandare tutto all'aria: lealtà, dignità, moglie e bambini.
Il mio amico Pascal Jules non ha avuto il tempo di scegliere: un incidente di strada falciava la sua giovane vita proprio quando stavo convincendo Guimard a riprenderlo. Julot aveva partecipato ad un incontro di calcio per beneficienza ed in quella sera tutti avevano bevuto troppo e Pascal me l'aveva sempre detto :" Vedrai, io morirò giovane, non arriverò a 30 anni." Era molto stupido dirlo, ma quella notte si è addormentato al volante.
Guimard mi ha chiamato in piena notte e un trauma enorme mi ha colpito; da allora, per parecchi anni, ho pensato a lui quasi tutti igiorni della mia esistenza e molto sovente ancora oggi, ma dal funerale non sono mai potuto andare al cimitero: è al di là delle mie forze, non posso proprio.
Morire a 26 anni, l'idea mi è insopportabile: ogni volta la fine di una vita è unica, come la fine di un mondo.