Nous étions jeunes et insouciants (XXI)
Il più bel fiore del ciclismo
L'emozione, la ricerca del meraviglioso, salire un gradino verso la leggenda ...
Sono sempre stato restio verso il senso popolare comune, ma ho sempre trovato strano che possano esistere degli uomini ai quali non piaccia la popolarità e che questi "begli spiriti" non ammettano che una grande moltitudine si riunisca lungo le strade per seguire la più bella prova del mondo.
Quando arriva luglio, ciascun anno, un evento offre alla Francia la sua celebrazione e questo evento ha un nome che ciascuno conosce.
Nel 1983 ero impaziente di scoprirlo, anche se, dentro di me, non mi fissavo certo l'obiettivo di vincerlo.
Nella Renault, dominava una grande incertezza, per non dire di più. B. Hinault al riposo forzato, era la prima volta dal 1978 che la Régie si lanciava nella "Grande boucle" senza il leader incontestato, senza la sicurezza quindi di poter lottare per la vittoria.
Io mi dicevo prima di tutto che dovevo imparare e che la prima partecipazione mi avrebbe portato abbastanza esperienza per l'avvenire.
Il mio obiettivo? Qualcosa che mi pareva ragionevole: vincere una tappa, cercare di conquistare la maglia bianca e finire fra i primi dieci nella classifica generale. La Vuelta mi aveva confortato nelle mie convinzioni: benché giovane, non avevo nulla da invidiare a Van Impe, Van der Velde, Winnen, Agostinho e neppure ad uno Zoetemelk che ormai era in via ... Perché questi erano i favoriti stranieri. Ed anche nei confronti di Pascal Simon, leader della Peugeot, che aveva vinto al Delfinato non mi sentivo troppo inferiore (P. Simon è stato poi declassato, per un controllo positivo in tale corsa).
Durante la settimana che precedeva il Tour, C. Guimard ci aveva molto parlato sul come ci avrebbe protetto, e cercato di far aumentare le nostre convinzioni positive con i migliori consigli possibili. Senza dubbio aveva paura di una reazione psicologica collettiva, contraria al ruolo che la nostra squadra aveva giocato fino allora. Nei suoi pensieri M.Madiot ed io eravamo, più o meno, i leader, o almeno i corridori protetti. Al nostro fianco c'erano, prima di tutto Jules e poi Becaas, Berard, Chevallier, Gaigne, Poisson, Vigneron, Didier. Rammento una frase di Cyrille." Dimentica la Vuelta, il Tour è dieci volte più complicato da gestire, la difficoltà del percorso, il ritmo, la pressione, tutto è moltiplicato."
Centoquaranta corridori erano al via e il prologo si svolse quasi al mio domicilio, a Fontanay-sous-Bois e non posso dire di essere stato normale, tutt'altro. Ero teso, emozionato, mi sentivo, paradossalmente, troppo vicino a casa mia, l'aria era troppo familiare e non avevo l'abitudine di essere troppo sollecitato e circondato da così tante attenzioni. Farmi male alle gambe, assumere il mio ruolo di compagno di squadra lo sapevo fare, ma interpretare una parte diversa e soprattutto farmela entrare dentro, mi pareva molto più complicato. Ecco perché non mi facevo alcuna illusione spropositata e il mio cattivo risultato nel prologo non aveva niente di illogico.
Anche se io mi ero portato fra i miei bagagli alcuni libri di Robert Merle, non ci si deve dimenticare che avevo solo 22 anni ...
Nessun giornalista immaginava allora che Renault potesse vincere il Tour e quando arrivò la prima cronometro a squadre (di 100 Km), il nostro quarto posto fu considerato un buon risultato, data l'assenza del nostro massimo passista. Ma io in quella gara avevo rischiato grosso, perché molto presto, dopo una ventina di km, mi sentivo vuoto. Una vera "fringale" che poteva compromettere tutto in pochi minuti. E restavano ancora 80 km! Guimard fece rallentare la squadra e nonostante che io avessi già mangiato tutto quello che potevo, non c'era stato nessun effetto. Per fortuna B. Becaas venne in mio soccorso e mi dette tutto quanto di commestibile avesse e, dopo ciò, pian piano sentii rivenire le forze. Ma questa disavventura poteva costarmi molto più caro e io devo soltanto la mia sopravvivenza sportiva a quanto restava nella "musette" di Bernard Becaas !!! Egli pagò per me, perché poco dopo fu lui vittima della fame, per mia colpa, e non poté seguire il nostro ritmo e lasciato inesorabilmente, ma io non dimenticherò mai il suo gesto ...
Che era successo? La spiegazione era semplice, ma potevano aversi conseguenze terribili. A quell'epoca, prima di una prova così esigente come una cronosquadre, noi prendevamo delle razioni di attesa composte essenzialmente di glucosio. Il mio organismo non lo sopportava e provocava nell'ora seguente uno scarico d'insulina per bruciare l'eccedenza di zucchero nel sangue e quindi ero diventato ipoglicemico. Impossibile il rimedio! Ma non era tutto finito lì, perché la terza tappa (Valenciennes-Roubaix) mi lasciò, proprio al riguardo, un ricordo incancellabile. Dovevamo attraversare qualche settore in "pavé" ed io scoprivo "in miniatura" una parte dell'inferno del Nord, senza peraltro sapere come affrontarlo. Nessuno mi aveva detto una cosa semplice: non bisogna mai stringere il manubrio con tutte le proprie forze, mentre ho invece fatto proprio questo, per paura di cascare o di scivolare, mentre (ora lo so) la stabilità non proviene evidentemente dalla fermezza con cui si stringe il manubrio, bensì dall'equilibrio generale collegato ad una elasticità naturale ...
Ero tuttavia in buona forma ed avevo passato la giornata quasi sempre in testa senza troppe difficoltà, ma dopo la tappa, togliendomi i guanti, ebbi una brutta sorpresa: avevo enormi piaghe alle mani, dovute al pavé e non potevo più chiuderle a pugno.
Il giorno dopo sarebbe stato l'orrore totale, 300 Km in programma con settori in pavé, per finire a Le Havre. Ho sofferto il martirio, non potendo chiudere le dita e potevo appena posare le mani sul manubrio e il mio "calvario" non finì lì.
La vigilia della crono individuale, vai a sapere perché, mi è venuto una congiuntivite piuttosto seria e così tenace, che non vedevo più niente da un occhio. L'assistenza medica d'urgenza non era quella di oggi e se non fosse stato il Tour, avrei abbandonato di sicuro ed in ogni modo non potei proprio vedere il mio compagno D. Gaigne attaccare a 6 Km. dall'arrivo e vincere la tappa. Questo comunque andava al di là delle nostre speranze ed una bella occasione per improvvisare una piccola festa in albergo.
Quando arrivò la prima cronometro individuale di 60 Km, una distanza che per me era nuova, la mia angoscia era palpabile. Risultato: 16° a più di 3 minuti dall'olandese B. Oosterbosch, ma a meno di 2 minuti da Sean Kelly ad esempio, il che, visto il contesto, mi fece rialzare il morale. E riflettendoci la tappa era stata piuttosto rassicurante, durante tre quarti del percorso in nessun momento avevo forzato e, non avendo alcun riferimento in questo tipo di crono, non avevo preso nessun rischio. Solo negli ultimi 15 Km mi sono deciso a spingere finché potevo e mi sono accorto che avevo parecchie energie ancora da sfruttare. Ed un'altra buona notizia: avevo finito la tappa senza rimanere per niente "asfissiato".
L'entusiasmo però fu di corta durata, perché il giorno dopo, verso l'ile d'Oleron, mi accadde una cosa stranissima per la quale non ho mai trovato una spiegazione: le mani andavano bene, gli occhi stavano guarendo, ma le mie gambe erano vuote, ero incapace di alzare il ritmo.
In tutto il giorno ho rischiato ad ogni più piccolo ventaglio, alla minima accelerazione, perché sentivo che se si fosse prodotto qualcosa di importante, mi sarebbe stato fatale. Le circostanze di corsa decisero al mio posto, perché fu solo un treno sostenuto, ma abbastanza regolare. Inghiottito al centro del gruppo sono arrivato in fondo, pur avendo lo stomaco nei piedi e le gambe di cartapesta. Avevo un'altra volta sfiorato il precipizio. Ciclismo, maestro ingrato, talvolta così vicino e tal altra così lontano ...
La grande tappa Pau-Luchon che aveva in sé l'Aubisque, il Tourmalet, l'Aspin e il Peyresourde mi portò delle buone conferme. Guimard mi aveva ben consigliato di non tentare di restare con i migliori fino all'ultimo nei vari colli: "I colombiani accelereranno per i punti del GPM e tu non potrai rispondere, ma non importa, niente panico, perché li riprenderai in discesa. Ma tenta di approfittare di una fuga che, quasi di sicuro, ci sarà nella vallata." Ho scrupolosamente seguito queste predizioni, inserendomi nella grande fuga del giorno, formatasi fra l'Aubisque e il Tourmalet e li mi sono accorto che nessuna prudenza era stata superflua. Sono restato a lungo con P.Jimenez, R.Millar e J. Michaud, ma fra l'Aspin e il Peyresourde ho avvertito una piccola crisi e non ho voluto andare in rosso. Fu in quel momento preciso, mentre stavo gestendo la mia sofferenza, che P. Simon mi passò accanto senza neppure guardarmi. La sera tutte le carte erano state mischiate e lui ha indossato la maglia gialla, mentre io mi ritrovavo secondo a 4 e 30 e con la maglia bianca sulle spalle. Era, allo stesso tempo, molto e poco. Molto, perché Simon era di sicuro in una grande annata, poco, perché la Peugeot non era una squadra capace di poter dominare e domare la corsa come aveva potuto farlo prima la Renault con Hinault. Guimard era, d'altra parte, molto soddisfatto del mio comportamento: ero stato temerario e non avevo commesso nessun errore.
Il ciclismo provoca il destino ed il destino purtroppo per Simon, andava crudelmente a malmenare il ciclismo. Fra Luchon e Fleurance, all'inizio della tappa, la maglia gialla si ritrovò a terra. Una caduta ridicola, come accade spesso, ma questa provocò un piccola frattura all'omero. Il giorno dopo Cyrille, più prudente di sempre, mi ordinò di restare nascosto e mi spiegò anche il perché: "Se è grave come si dice, la maglia ti cascherà addosso presto o tardi ed allora dovrai fare molti sforzi e quindi preservati per quel momento."
Da quel giorno, dentro di me, ebbi la convinzione che avrei vinto il Tour ed era talmente evidente per me che andai subito a parlarne con Pascal, avevo bisogni di confessarlo almeno a lui.
Il Tour ha proseguito la sua strada con un P. Simon sempre presente ed attirava su di sé tutte le attenzioni e tutti i "flashes" e ciò mi conveniva perfettamente e in quei giorni io mi concentravo su Delgado, Van Impe, Arroyo e Winnen che avevano ancora l'illusione di poter essere maestri del gioco.