Aldilà degli aspetti di tristezza pura ma personali, c'è però un discorso generale da fare, molto molto importante.
Parto dalla contraddizione di dover tifare il perdente ed essere ostile al vincente, come azione in solidarietà al perdente, soggetto che rappresenta i perdenti del mondo.
Parlo da uno che in politica e storia è dalla parte del Vietnam contro gli Usa e dell'Afghanistan contro l'Unione Sovietica, del piccolo invaso contro l'invasore.
Nella storia ci sta, è un modo di affermare l'autodeterminazione dei popoli e degli individui.
Ma è insano portare questi modi di vedere le cose nello sport, un mondo che ha bisogno di tutto, tranne che dell'inquinamento politico o peggio partitico.
E' inammissibile volere vedere in Nibali l'odiato potente che è baciato dalla fortuna e dal corrotto fato e in Contador il brutto anatroccolo il reietto vittima del potere tirannico.
Queste sono frustrazioni che possono essere scaricate in una curva di uno stadio non nella rappresentazione di una competizione ciclistica.
Di fronte al ridicolo dell'inconsistenza di queste visioni ecco che questo internazionalismo di maniera cosa fa? Evoca il nazionalismo ed il conformismo a supporto del nuovo eroe nazionale (del ciclismo pulito). Per buttarla in caciara politica direi: "Per fare vedere che sono un vero comunista vado a cercarmi i "fascisti" dai quali distinguermi e sui quali elevarmi. Se non li trovo, li evoco o li invento".
Noi siamo sempre i mejio.
Questo è il significato vero e profondo del voler essere contro. Una esigenza di elevazione personale, anche se velleitaria e basata sul nulla.
Per i veri appassionati Marco Pantani è morto il 5 giugno 1999. Per altri, per i
contristi, Pantani, l'eroe Pantani, comincia a vivere "da perdente e da sconfitto" solo il 5 giugno 1999.
Pantani diventa un eroe perdente da cavalcare, da far assurgere ad icona politica, col risultato di renderlo una macchietta ed un bersaglio.
Dell'uomo Pantani, né del vincente né del perdente, ai
contristi non frega nulla, ciò che importa è il tormentone retorico-politico, il simbolo.
Ci si dimentica che Pantani diventa un oggetto sacrificale proprio perché a fine 1998 era un assoluto vincente, come potrebbe essere fra qualche settimana Vincenzo Nibali. Aldilà della scaramanzia è bene avere chiaro questo ed anche la delicatezza del momento.
Pantani era un vincente in quel momento e come vincente rappresentava il perfetto agnello che la politica doveva immolare per dimostrare che il "ciclismo non guardava in faccia a nessuno", citando le tristissime parole usate allora dal presidente federale (allora in carica) Giancarlo Ceruti, con massimo gaudio per il Coni 1999, in ginocchio per gli scandali.
Ceruti sacrificò il
vincente Pantani per dimostrare che non guardava in faccia a nessuno ed il Coni sacrificò il vincente Ciclismo per evitare che qualcuno (magistratura e stampa) guardassero in faccia i vertici del Coni e dello sport italiano più potente.
Non mi stupisce che una persona che abbia cavalcato strumentalmente la tragica vicenda di Marco, oggi non riesca a scorgere la follia di queste assurde posizioni nei confronti di Nibali.
Il mondo del ciclismo è scottato, queste cattiverie le abbiamo già vissute, in tanti le hanno metabolizzate nel proprio dna passionale e sportivo.
Non possiamo più ripetere gli stessi errori, non possiamo aspettare che Nibali venga precipitato dalle stelle alle stalle dal chiacchiericcio e dalla maldicenza, come un adorato perdente, per poi andare ad idolatrarlo come tale, magari come vittima del sistema.
Il ciclismo ha bisogno di serenità, di pacatezza, di raziocinio, di consapevolezza ed identità comunitaria-sportiva. Il ciclismo deve volersi bene, esattamente come dovrebbero volersi bene gli italiani (cit. giornalista sopra), volere bene a sé stessi si badi bene, non un vacuo invito al
volemose bene.
Insomma:
GIU' LE MANI DA VINCENZO NIBALI. GIU' LE MANI DAL CICLISMO.
PS.
@Uribe
Noi saremo preservativi, certamente.
Perché se ci sono simili teste di cazzo, in tal modo eviteremo il contagio.