La vittoria di Philippe Gilbert ha reso brillante una corsa grigia, di una pochezza tecnica evidente ed allarmante, alla quale ha contribuito non poco il cambio di percorso, con quei 20 chilometri finali assurdi e la conseguente mortificazione dello stesso Cauberg. L’Amstel di oggi è Gilbert, un tenore, il migliore degli ultimi 15 anni nelle corse di un giorno, per completezza, efficacia e spettacolarità. Averlo nel proprio albo d’oro, è segno di qualità, di dono, di inno ad un ciclismo che non perde occasione di testimoniarsi in crisi, atto solo a tenersi il consolidato degli appassionati, senza pensare a quei nuovi che posson dargli futuro o, se vogliamo, continuità.
Ha ragione il mio amico Roger De Vlaeminck: Pippo, il vallone, è un grande; uno che merita la storia perché ha vinto dalla veloce “Tours” a quel Giro di Lombardia che, a parere del “Gitano di Eecklo”, è la corsa più bella ed impegnativa del mondo, nonostante l’appannamento costruitole da organizzatori e quella tremenda UCI, così vergognosamente lanciata a sostenere le specializzazioni, ovvero un uomo fra i supremi della bruttezza del ciclismo attuale. Gilbert ha saputo poi piazzarsi sulle pietre, facendo meglio di quanto non abbiano fatto, i tanto decantati Cancellara e Boonen, là dove costoro non paiono, e non lo sono alla luce dei fatti tracciati, dei predestinati.
È un Pippo al 70%, che s’avvia al vero tramonto col fare del comunque vincente, perché le doti non sono acqua e perché attorno ha dei figuri di facili menzioni, fra i quali anche gente disoccupata o mai professionista, nel pedale di 40 anni fa. Perciò potrà vincere anche Freccia e Liegi, ma sarà sempre al 70% di quello del 2011. Per il ciclismo però, sarebbe sempre meglio un secondo poker del vallone sulle Ardenne, piuttosto che le vittorie di carneadi reali, anche se torniti di leccornie mediatiche, come quelli a cui ci siamo abituati a vedere e sentire, sull’ex monumento “Sanremo”.
È un Gilbert che devo ringraziare, aldilà dell’ammirazione e della simpatia che provo per lui da sempre, perché è uno che s’aggiunge ai filmati su Pantani, per appassionare un mio nipote trentunenne, scelto dal personale taccuino di ricercatore nella divulgazione dello sport, come cavia importante al fine di confermare il valore degli autoctoni studi su questa strana forma artistica. Uno che segue tante discipline, che ha cultura media, sportiva e non, ed una particolare predisposizione verso la passione. In altre parole, uno stereotipo per verificare la salute e l’immagine di uno sport, nonché le sue potenzialità diffusive, al netto della confondente e miope entità dei consolidati appassionati, così capaci di digerire anche i sassi e così involontariamente vistosi accettatori di un pedale votato a far vedere antichità vincente, solo in quei pedalatori, per impatto sociale e derivazioni sulla salute, imperiosamente più dopati degli agonisti, impegnati ogni week end nelle granfondo. Sì, proprio quelle manifestazioni che sono la vita dell’industria legata alla bicicletta, ma che non aggiungono nulla al valore dell’eccellenza del pedale e della sua storia.
Per questo mio nipote, Gilbert è un valore aggiunto per porsi di fronte alla TV: non lo sono altri suoi colleghi e, tanto meno, lo sono quelle corse che le radioline e gli ineffabili (eufemismo) diesse, hanno ridotto a parate di squadre al servizio di capitani monchi e noiosi. Esattamente come le risultanze della mia ricerca empiristica nei bar di fronte al Giro d’Italia di un paio d’anni fa. Per chi mi legge da tempo, non sono novità e, personalmente, codeste considerazioni rappresentano l’effige d’una vita da divulgatore, ovviamente e decisamente più apprezzato in altre discipline, piuttosto che nel mondo ciclistico.
L’Amstel di ieri ha poi messo un’altra pietra (ma chi ha il coraggio di dirlo fra gli addetti ai lavori?) sul muro della modestia tecnica di Damiano Cunego. Mai sognerei di mettermi a fare delle disamine su di lui - le facevo in passato, quando la pazienza e la voglia erano migliori, o il masochismo giungeva all’entità fallosa di chi lo deve fare per mestiere, con relativo spesso stupido politically corrrect - ma oggi è tempo di passare….. allo stupore. Quale? L’averlo visto come un atteso, un papabile al successo, non già dai suoi tifosi, a cui va perdonato l’appannamento o la forte miopia, ma da gente che dovrebbe avere ben altre lucidità, anche di fronte al sempre non positivo nazionalismo sulle forme artistiche come, appunto, lo sport. Davvero potevano bastare le buone prove con relativo massimo piazzamento per le qualità possedute, nelle varie corse di questo scorcio di stagione, per mettere uno come Cunego nei titoli? È pur vero che oggi gli addetti ai lavori sono, torto collo, costretti ad usare superlativi su corridori che negli anni settanta non avrebbero visto il professionismo, ed è pur vero che le benzine attuali scorrenti nei corpi, le conoscenze alimentari e tutto quel maestoso corredo d’assistenza, esaltano la rivoluzione in avanti su un mezzo che, in proporzione ad altri spinti a motore, rappresentano il top dei top, ma è pur vero che qui, in fondo, l’azione si volge su quella bicicletta che usa il propulsore insistente nel corpo umano. Ed allora, scansando atti fortuiti ed ovvie circostanze che mostrano l’involuzione dei talenti atletici presenti nel ciclismo, o il ricordo che qui, nel 2008, Damiano fece l’unica corsa da super della sua vita, poteva davvero il motorino del veronese, da anni fissato sul limatore incapace di sbalzi esplosivi con conseguenti cambi di ritmo, sgretolare un Gilbert che ha una cilindrata perlomeno tripla a quella di Cuneghino, anche quando è al 70%? Suvvia, siamo seri, ed anche se giornalisti, proviamo ogni tanto a fare i logici, i conoscenti, i lettori delle realtà, lasciando alle eccezioni che confermano le regole, quel corso storico che ne han fatto la legge dei grandi numeri. Oltre tutto, anche uno scolaro somaro di ciclismo, sa che Cuneghino, può far meglio ad una Freccia che si ferma sul culmine dell’ascesa di Huy, piuttosto che ad una Amstel che, alla cima del più tenue Cauberg (conseguentemente più da potenti per fare differenze), aggiunge quelle centinaia di metri di mezzo falsopiano, dove il motore umano conta tantissimo. Ed è mai possibile che un simile corridore, in un ciclismo dove i soldi vengono solo dalle sponsorizzazioni, che non vince una corsetta da non so quanto tempo, che non sa fare il capitano e tanto meno il gregario, debba passare indenne alle disamine e non trovare mai, un addetto che abbia il coraggio dell’intelligenza, pronto a dire che quell’ingaggio, il Cuneghino, lo meriterebbe ad uno zero in meno e non in più? Possibile che il ciclismo si possa permettere questi continui insulti alle realtà? Quello italiano poi, che vede morire delle corse storiche e che gli sponsor se li gioca sulle inutili e/o sibilline sirene granfondistiche, è ora che cerchi qualche Giuntini, o Paramatti, o Perissinotto, più bravi e meritevoli, al fine di costruirsi un’immagine! Basta con questi trapassati dal parco valore! Si investa sulla ricerca di atleti, per farne poi dei corridori, altrimenti per vincere bisogna aspettare quel fattore “c” che fa sempre parte del gioco, ma sul quale solo gli stupidi posson pensare di partorire progetti proiettati in avanti. A tenere a galla un Cunego e un Pozzato, guarda caso finiti nel medesimo team, sono fattori che non hanno nulla a che vedere col valore sportivo. Poi si scopre che l’unica ragione plausibile delle fortune economiche di uno come il Cuneghino, sta nella “vistosa” presenza dei suoi tifosi internettiani e, memori, da italiani, che pure un clown nel migliore dei propri epigoni possibili, ha usato questo nuovo e comunque applaudibile mezzo per le sue fortune politiche, non ci resta che rimbalzare sullo sconforto. Povera Italia!
……Alla prossima sui team e sui costi esagerati, fuori mercato, del ciclismo attuale…
Morris