Il cuore di Alfredo Di Stefano s’è fermato, lasciando il testimone ad una leggenda che non morirà mai, perlomeno fino a quando esisterà lo sport.
Il protagonista di questo ritratto-racconto è il calcio, nella sua versione totale e nell’unica figura della storia, che s’è resa siamese ad un simile ruolo: appunto “Saeta rubia”- Alfredo Di Stefano.
Scrissi questo racconto nel 2001, l’ho rivisto nel 2004 e l’ho pubblicato nel primo volume della collana “Graffiti” nel 2010.
Lo riporto integralmente.
Morris
ALFREDO DI STEFANO: Saeta Rubia
E’ difficile parlare di questo figlio della pampas: gli ingialliti filmati del tempo, le foto, i ricordi trasmessi ad ogni narratore odierno, si attenuano nella rabbia per non averlo osservato da vicino, applaudito per quella arte atletica e tecnica che pare unica nella storia del calcio. Si afflosciano le volontà di confronto, per l’impossibilità personale di un contatto, e si rimane a bocca aperta di fronte all’incredulità che viene al sentire vecchietti, o signori seduti sull’età della pensione, esternare fulgidi lampi di ammirazione nel rimembrare Alfredo: per costoro il più grande, l’inavvicinabile, l’unico, l’immenso.
Incontrai un tipo così, in un ristorante davvero “over”, di fronte al Museo Guggenheim di Bilbao, nel 2000. Un uomo basco, di non meno di settanta anni, che si presentò a me, per l’amicizia che ci legava entrambi ad un grande ciclista. L’avevo già notato ai margini di una conferenza, nel Salone della Fiera, dove mi ero davvero divertito in quegli excursus storici che amo, indipendentemente dallo sport di riferimento. Anche là aveva cercato di parlarmi, ma la ressa, le telecamere e quell’intreccio di microfoni, avevano impedito ogni contatto.
Joseba, il suo nome, nella maggior tranquillità di quel ristorante, dove, per il nostro gruppetto la direzione aveva riservato un’apposita saletta, per darmi il benvenuto, mi regalò una foto inedita scattata con Charly Gaul, alla partenza di una delle non certo tante gare del lussemburghese in Spagna. La sua loquacità e la voglia di parlarmi in italiano senza far intervenire troppo l’interprete, trasmettevano simpatia ed una gentilezza inaspettate. Era un esperto di sport, Joseba: lui stesso, in gioventù, ne aveva praticati diversi e, come tutti i baschi della per loro capitale, viveva di ciclismo e di Athletic Bilbao.
Lo capii quando, svariando nelle più varie discipline, arrivai proprio a quella che era stata una bandiera della squadra locale, l’indimenticabile guardiano nero, Josè Iribar. A quel punto, il mio intraprendente interlocutore, si lasciò andare ad una serie di aneddoti particolareggiati e coinvolgenti, fino al punto di chiedermi, quasi sospettasse una mia incredulità, di trattenermi ancora, per farmi conoscere proprio il lontano ex della porta del Bilbao. Gli telefonò addirittura, per verificare se era possibile. Poi, tolse dalla borsa che si teneva presso, un piccolo gagliardetto dell’Athletic e me lo donò: come a dire che ci teneva a continuare a parlare di calcio.
Mi sentii in dovere di spingermi oltre e, dalla squadra del luogo, passai direttamente a quel Real Madrid che avevo intuito meno odiato del Barcellona. Fu una folgorazione per Joseba, perché poteva lanciarsi nel racconto di un idolo: Alfredo Di Stefano.
Per capirlo bastava guardare i suoi occhi neri come la pece, diventare brillanti e lucidi. Ascoltarlo era un vero piacere. Del grande Alfredo sapeva tutto e la mia interprete, che lo spagnolo l’aveva imparato per la convivenza col compagno argentino, mi chiese licenza: anche per lei era troppo coinvolgente l’ascolto. Joseba, come se avesse capito la situazione incentivò il suo “italiano castigliano”, ma si capiva benissimo. Mi raccontò la storia dell’argentino che gli spagnoli sentivano come loro e non solo per lingua e naturalizzazione, condensando il tutto con un significativo: “di fronte a lui, baschi, catalani, madrileni e andalusi, erano fratelli nell’ammirazione e nella riconoscenza”. Si soffermò così, a rimembrare il lungo colloquio che ebbe con Di Stefano nel 1959, ai margini di un allenamento del Real, proprio a Bilbao. Della sua umanità nel raccontarsi come solo sulla spinta di una grande povertà divenne calciatore, dei giorni di digiuno forzato, per mancanza di viveri e del suo intendere il calcio, come un mestiere da svolgere con professionalità e devozione.
Negli occhi di Joseba, spuntarono le lacrime, rimembrando un gol di Alfredo fatto proprio al suo Athletic, quando seminò tre avversari nella sua metà campo, lanciò Puskas e fu sempre lui a raccogliere il cross dell’ungherese sfoderando un tiro potentissimo che si insaccò nel sette. Lacrime che divennero ancor più evidenti al ricordo di una delle ultime partite dell’argentino, quando, a quaranta anni, nel ’66, con la maglia dell’Espanyol, giocò a Salamanca.
Joseba, era andato nel capoluogo di Castiilla y Leon, un giorno prima, per vederlo in allenamento. “Dietro le reti – disse - gli urlai che era ancora il migliore. Lui si voltò e venne da me, chiedendomi se ero quello di Bilbao. Mi firmò un altro autografo, con dedica. Mi aveva riconosciuto, incredibile! La domenica giocò magnificamente, correndo sempre più forte di tanti che potevano essere suoi figli. No, non ho mai visto uno come lui. Anche Maradona, Pelè e Garrincha erano diversi. Lui giocava dappertutto, lo vedevi nella sua area, a centrocampo e a far gol. Non sbagliava un passaggio, destro e sinistro erano lo stesso piede e poi, quando partiva, era davvero una Saeta Rubia, anche se i capelli biondi, pian piano, venivano a meno. Il suo tiro poi, era di una potenza e una precisione da lasciarti a bocca aperta. So bene, che per un vecchio come me, può apparire scontato vedere uno della sua generazione come il più forte di tutti i tempi, ma io lo dico lo stesso: Di Stefano è stato il più grande giocatore di calcio che abbia mai visto, perché sapeva fare benissimo tutto quello che puoi chiedere ad un calciatore. Non aveva un difetto, nemmeno uno. Lo scriva se le capita di dover raccontare chi era Alfredo!”.
Le parole di Joseba, sono dunque arrivate fin qui, e le ricordo fin troppo bene, per quella sua voce cavernosa e quegli acuti baritonali che accompagnavano gli emotivi percorsi di racconto. Quel vecchietto, da un paio d’anni ci guarda da lassù e, forse, da quel palcoscenico che sfugge alla nostra comprensione, gli sarà stato possibile rivedere d’un fiato, tutte le coreografie calcistiche tracciate sui campi da Alfredo Di Stefano. Se così fosse, il suo paradiso si chiamerebbe davvero felicità.
La storia e la carriera del grande campione argentino.
Alfredo Di Stefano Lauhle, è nato poverissimo, il 4 luglio 1926, a Barracas, un umile quartiere di Buenos Aires. La sua famiglia era di origini italiane: il nonno, da Capri, era giunto nella capitale argentina, in cerca di quella fortuna che in Italia vedeva impossibile. Il padre, aveva avuto l’occasione di affermarsi, perché era stato un discreto giocatore del River Plate, ma ai suoi tempi i calciatori non guadagnavano nulla, anzi, erano un peso in più a carico delle famiglie. Quando il piccolo Alfredo aveva solo quattro anni, i Di Stefano si sistemarono in una piccola fattoria dove facevano i bovari e dove solo ogni tanto, potevano guadagnare qualcosa. Troppo poco per schiarire il nero di una povertà incipiente, resa ancora più cupa dalla mancanza di viveri, a causa delle regole ferree che aveva imposto il proprietario della piccola azienda agricola.
Il piccolo Alfredo era cresciuto con un pallone di stracci, l’unico gioco che gli veniva possibile, quando mamma, non avendo nulla da dargli da mangiare, lo spingeva fuori di casa, perché dimenticasse in qualche modo il pasto mancato. La sua situazione era drammatica, ma dalla sua aveva l’abilità della disperazione. Era intelligente il piccolo Alfredo, aveva capito, attraverso le parole di un ragazzo più grande, che dribblava sempre, quanto fosse possibile guadagnare imparando a giocare a calcio. La strada di fronte alla fattoria in cui viveva, era un campo scomodo per uno che non aveva scarpe, ma solo un paio di zoccoli che servivano per andare a scuola. Da scalzo, in mezzo ai sassi e con una pallone irregolare, fatto appunto di stracci, si mostrò ben presto bravo abbastanza, per poter dire di saper trattare anche un pallone di cuoio, con scarpe che non fossero la pelle dei piedi. Lo capirono subito alcuni componenti la squadra di Los Cardeles, i quali, erano venuti a vederlo di nascosto, in strada, su suggerimento di quel ragazzo più grande, il solito, quello preso a dribbling e tunnel.
Quegli improvvisati osservatori, convinsero il piccolo Di Stefano, allora solo dodicenne, a calzare scarpini che assomigliavano più a dei sandali, ma adatti per fargli sostenere un provino per la loro squadra. Doveva giocare in mezzo a giovani tanto più grandi di lui e, soprattutto, su un campo vero, ma per Alfredo fu un gioco da ragazzi superare una simile prova. Entrò così nelle giovanili del Los Cardeles, giocando in mezzo a ragazzi di quattro cinque e sei anni più anziani di lui. Nemmeno due anni dopo, nel marzo del 1940, giocò una partita importante, perché serviva da provino per le selezioni del River Plate. Gli attenti occhi dei selezionatori dello squadrone platense, rimasero entusiasti nel vedere quel ragazzino segnare tre gol e deliziare di coreografie veloci la partita. A fine incontro, quei signori raggiunsero Alfredo e gli diedero del danaro, con la promessa che nel giro di un paio d’anni, l’avrebbero inserito nelle file del River. Dopo tanti anni, a proposito di quella partita Di Stefano racconta:
"Consegnai quei soldi, li diedi a mia madre, dicendole che non avremmo mai più sofferto la fame. Fui di parola. Presto capii che se avessi giocato meglio mi avrebbero dato più danaro e anche che per giocare meglio, avrei dovuto allenarmi di più. Tutto quello che ho fatto nel calcio, l'ho dovuto imparare, provando e riprovando: non ero un talento naturale, mi sono sacrificato ed ho sofferto."
Due anni dopo, nel 1942, come gli era stato promesso, Alfredo fu inserito nelle giovanili del River Plate e solo un anno dopo, appena compiuti i diciassette anni, l’esordio in prima squadra nel ruolo di ala destra. La squadra platense, piena di grandi nomi, decise poi di mandare il ragazzino a “farsi le ossa” in una squadra con meno ambizioni, ma pur sempre di nome come l’Huracan.
Qui, “El Aleman”, come venne subito chiamato in virtù della sua chioma bionda, giocò con frequenza nel ruolo di centravanti e trovò pure le vie del gol. Il suo originale modo di ricoprire le funzioni di attaccante fu subito notato come una novità assoluta. Alfredo partiva da lontano ed azzerava le distanze dalla porta, con una velocità incredibile e un tiro fulminante con entrambi i piedi. Nel corso del campionato giocato con i rossi dell’Huracan, segnò diversi gol, uno addirittura decisivo per la vittoria, contro il suo River. Nel 1946, tornò nella squadra platense come centravanti, divenendo “la bocca di fuoco” principale della “maquina” (la macchina), definizione che si legò all’attacco del River di quei tempi, per il modo spietato con cui sgominava le difese avversarie. Furono stagioni di successi per Alfredo e per il suo nuovo e poi immortale appellativo di “Saeta Rubia”. L’anno successivo, Di Stefano, sempre più astro del calcio argentino, guidò con fare da dominatore la Selecion alla conquista della Coppa America.
Nel 1949, la carriera della giovane stella rischiò un grave stop. Alfredo giocava soprattutto perché lo pagavano, ed aveva un bisogno enorme di soldi, per la promessa che si era, ed aveva fatto a se stesso e alla propria famiglia. Era l'Argentina di Evita e di Peron, ed era scoppiata una grande crisi economica. Le società non pagavano più gli stipendi, ed i giocatori, compreso Di Stefano, risposero con uno sciopero che poi si trasformò in una vera e propria fuga verso la vicina Colombia, paese che si annunciava come un paradiso.
Il campionato colombiano di calcio però, nonostante il valore tecnico di giocatori e club, era considerato “pirata”, perché esterno alla giurisdizione dalla FIFA. Alfredo finì nei Millionarios di Bogotà, una squadra dove lui era nettamente il più giovane e dove, assieme ad Adolfo Pedernera, formò una coppia che seppe fare immediatamente epoca. Tre anni più tardi, finalmente, l’irganizzazione mondiale del calcio, reintegrò la Colombia, ed i Millionarios, per festeggiare l’avvenimento, fecero una tournèe mondiale, dove il valore del club fu compiutamente dimostrato. In una di queste partite, quella del cinquantesimo anniversario della fondazione del Real Madrid, Di Stefano, folgorò i taccuini e le intenzioni del grande club spagnolo, il quale si accordò immediatamente con la squadra colombiana, per l’acquisto del cartellino dell’argentino.
Nel 1953, Alfredo, partì così per la Spagna, alla conquista di un nuovo calcio, ma gli aspetti di quel passaggio non furono per niente semplici. Il Barcellona, infatti, si era accordato precedentemente col River Plate, ed un tribunale spagnolo, fu costretto a risolvere la querelle, con una salomonica decisione: Di Stefano avrebbe dovuto giocare un anno nel Real e uno nel Barcellona, a meno che, i due club, non si fossero messi d’accordo fra di loro in maniera diversa. I primi due mesi spagnoli di Alfredo furono pessimi, non riusciva ad integrarsi al clima e agli automatismi del Real e tutto questo portò i catalani a trovare un accordo con la società rivale, al fine di cederle al miglior prezzo possibile la propria parte. L’accordo fu siglato in fretta e furia e fu per il Barcellona una topica gigantesca. Solo quattro giorni dopo, infatti, Di Stefano, si svegliò dall’incantesimo e segnò tre gol, proprio ai bleugrana catalani. C’è chi dice che il comportamento disarmante di Alfredo nei primi tempi spagnoli, non fosse altro che una recita concordata coi dirigenti madrileni, ma, probabilmente, è solo una lettura atta ad alimentare la leggenda di Saeta Rubia. Alla storia resta il fatto inconfutabile dell’apertura di un’era, lunga undici anni, fra Di Stefano e il Real e la nascita della striscia di successi più tangibile e prestigiosa, da parte di un club, nel corso storico del calcio. All’arrivo di Alfredo, il Real Madrid veniva da più di 20 anni di digiuno nella Liga, con lui ritornò subito Campione di Spagna e, negli undici anni nei quali Di Stefano ne sarà l'indiscusso leader o il faro supremo, vincerà il titolo altre sette volte. Ai campionati spagnoli, il club aggiunse 5 Coppe dei Campioni (tutte consecutive), una Coppa di Spagna ed una Coppa Intercontinentale (ma ne avrebbe vinte di più, se la nascita della manifestazione fosse coincisa con quella dei Campioni). Una serie di trionfi, dunque, senza paragoni. Nelle finali europee che videro il Real vincente, Alfredo andò sempre a segno.
segue....