Quando il vento della vita abbraccia gli incontri con qualcuno che non è vinto dalla cancrena dell’ignavia, s’apre sempre in me un sentiero che s’intinge di colori, si caratterizza di odori distinguibili come fossero spezie e si volge verso un orizzonte che abbraccia un insieme di emozioni. Può nascere un pensiero fertile, un alone che accarezza quella poesia che t’abbraccia come un quadro tridimensionale, in cui ci si immerge per gustarne ogni spicchio e quell’incontro può mettere le fondamenta per la casa di un sunto perenne.
Mario Dagnoni ha un significato preciso per un bambino appassionato di ciclismo di sessant’anni. È stato l’uomo che, in piedi su una moto enorme ed un casco similare a quello d’un palombaro, conteneva il rombo del mezzo e produceva la velocità per quel corridore che, dietro un rullo, col motore dei propri muscoli, l’inseguiva. È il pensiero descrittivo e volutamente prolisso di quel bimbo che faticava a capire i perché di quella corsa che taluni chiamavano mezzofondo ed altri stayer, ma che aveva un fascino come nessuna. Il teatro era un velodromo, quasi sempre per i piccoli televisivi era il tempio del Vigorelli di Milano ad ospitare quelle orbite così appassionanti anche per la gente sugli spalti.
Mario finiva col suo cognome sulla fascia bianca fra due bande nere nel dischetto di carta che veniva applicato sul tappo (o coperchio, o “quarcì” nel mio dialetto) di una birra o di una bibita, ed era la metà del protagonista-concorrente di un gioco che solo i bambini più fortunati potevano permettersi. L’altro protagonista era il corridore, che si poteva chiamare Raffaele Introzzi, Antonio Carniel o Renzo Premoli se la gara era riservata ai dilettanti, Domenico De Lillo o Armando Pellegrini se era per professionisti. I due tappi erano legati da fil di ferro ed il bambino sottoscritto, fortunato ed abile, trovando a casa cemento e sabbia, poteva farli correre su una quasi perfetta miniatura del velodromo milanese. Si fermavano i grandi a guardare quel gioco e poco importavano le modificazioni cercate dal bambino direttore, forse fenomeno o forse birichino, nel ripetere e ripetere quella gara milanese del 1962, quando Dagnoni e De Lillo le suonarono ai re Meulemann e Marsell.
1962 - Vigorelli, Gran Premio Città di Milano: Mario Dagnoni con al rullo Domenico De Lillo superano il celeberrimo Bill Meulemann (considerato il più grande conduttore del mondo) con l'iridato Karl Heinz Marsell. Le moto sono Meyer che saranno poi sostituite dalle Bsa.
Mario Dagnoni è quell’allenatore stayer che nella maturità, facendo leva sul suo formidabile talento, è diventato una leggenda, vincendo di tutto: 3 Campionati Europei, una novantina di GP Internazionali, 28 Titoli Tricolori, ed ha stabilito 3 Record Mondiali. Ha legato la sua figura di allenatore a tanti corridori, su tutti il pluri-iridato Bruno Vicino, ed ha aiutato tanti ragazzi nella difficile permanenza su quel ciclismo su pista che, in Italia, è in crisi da 50 anni. Era stato anche lui un corridore, più che discreto fra i dilettanti, ma la svolta la visse nel ’58, a 23 anni (era nato a Segrate il 25 luglio 1935), quando Edoardo Severgnini, intuendone il formidabile talento motoristico, gli consigliò di passare fra gli stayer. Altra svolta nel 1961, quando Dagnoni, dopo esser stato capo officina come dipendente, si mise in proprio fondando la DARIMEC, azienda per la costruzione di ingranaggi. Ed anche qui fu un successo. I tre figli di Mario, Cordiano, Christian e Sergio, hanno seguito le orme del grande padre, sia in azienda che nella passione ciclistica, per le gare dietro moto in particolare.
Mario Dagnoni è passato a guidare gli stayer nell’incomprensibile di un’altra dimensione, ieri. È stato, come ho scritto, familiare in me fin da piccino, ma l’ho incontrato di persona solo un paio di volte. Abbastanza per capire quanto fosse cordiale, anche se, come tutti gli uomini che si son fatti da soli di quella generazione, deciso e convinto del sé. Sentendolo parlare, capivi quanto il suo talento di allenatore, si muovesse su una sensibilità sopraffina nell’intuire i momenti dell’affondo e lo stato dell’atleta nelle varie fasi di gara. Un maestro della velocità e della resistenza, senza indebolire quest’ultima con degli inopinati fuori giri. Quando ho scritto la storia della Roma-Napoli-Roma poi divenuta GP Ciclomotoristico, da appassionato del connubio-binomio fra bici e moto, non potevo che finire a pensare a Mario.
Chissà perché, ma dei profumi e degli ambienti del ciclismo, tornando agli inizi di queste righe, non posso scansare tre simbiosi che mi vengono naturali: il freddo e la pioggerellina che intensificano la volontà di entrare e vivermi completamente arte e ricreazione di un tabarin, nell’attesa di una classica corsa del nord franco belga. Il profumo del caffè sullo sfondo d’un locale arso di caldo, come nell’incontro fra Albert Londres ed Henri Pelissier genesi de “I forzati della strada”, prima di vivere un tappone di un grande giro e quell’inconfondibile odore, misto fra cuoio e morchia, che mi accompagna quando penso a Mario Dagnoni, simbolo degli stayer e di quelle gare dietro moto o derny su strada, che mi piacerebbe organizzare e che trovo stupendamente moderne.
Ecco un obiettivo per il nuovo Vigorelli: portare nel tempio del ciclismo su pista il Mondiale di mezzofondo o stayer nel nome di Dagnoni, alla faccia di quell’UCI che la salute mondiale del ciclismo, deve progressivamente ed intensamente prendere a calci e rimpicciolire.
Caro Mario, ti sia lieve la terra.
Maurizio Ricci detto "Morris"