Nato a Sarmede (TV) il 21 ottobre 1932 a Sarmede (TV) ed ivi deceduto il 16 maggio 2014. Passista scalatore, discretamente veloce, alto 1,78 per 71 kg. Professionista dal 1956 al 1962 con 9 vittorie.
Un corridore "razza Piave", molto elegante e abbastanza completo che, nelle giornate di punta, si elevava a rango di ottimo corridore, quasi campione. Il suo tallone d'Achille, le cronometro e la continuità. Una carriera non lunga, sette anni, ma con un paio di stagioni davvero notevoli. Con Vito Favero incontriamo uno dei davvero pochi evidenti di un anno, il 1958, dove Gaul e Baldini, relegarono a paggi fior di campioni. Pragmatico e silenzioso come i richiami della sua terra, dove s'attende con devozione i frutti di quel vino che tanta parte ha nelle nostre tavole, ed esuberante, quando i muscoli delle sue gambe lunghissime, rispetto alla statura non gigantesca, aggredivano le strade. Una persona a modo, con uno stile palpabile, ed una dote che in molti sottostimano: la consapevolezza dei propri limiti.
Di Favero, tutti ricordano il secondo posto al Tour del 1958, certo sorprendente, ma meritatissimo. In quella Grande Boucle, indossò per sei giorni la maglia gialla: diede illusioni, quando la conquistò sui Pirenei; sconforto, quando di fronte ad un gigantesco Gaul, si beccò otto minuti sulla cronoscalata del Mont Ventoux, lasciando le insegne del primato all'arcigno Raphael Geminiani; nuove speranze quando ad Aix-les-Bains, in una giornata di tregenda, giungendo terzo ad oltre dieci minuti da un leggendario Gaul, la riconquistò. Ma la storia era scritta, ed il mitico lussemburghese, con una cronometro formidabile sui 74 chilometri di Digione, si prese il giallo definitivo, lasciando a 3'10" il bravissimo ed applauditissimo Vito.
Favero, che nell'anno precedente, si era posto all'attenzione, per la vittoria nella tappa di Napoli al Giro d'Italia, dove superò allo sprint i compagni di fuga Gismondi e Defilippis, non chiuse quel grande '58, con lo storico podio del Tour. Nelle settimane successive alla Grande Boucle, vinse il Criterium di Ginevra e quello di Montron, fino a correre, nell'unica volta in cui fu azzurro, un grande mondiale. In quella Reims che donò ad Ercole Baldini la maglia iridata, Favero, dopo aver bellamente difeso la cavalcata arcobaleno del compagno, fu beffato dallo sprinter francese Dedè Darrigade, nella volata che valeva il terzo posto. Una quarta piazza, comunque, che lo annunciava tra i principali emergenti del panorama internazionale. Ed il 1959, pur non portando grandi piazzamenti nelle corse a tappe, fu prodigo di soddisfazioni per il corridore di Sarmede. Iniziò la stagione vincendo la tappa di Nuoro al Giro di Sardegna, davanti a Bahamontes e Aldo Moser. Una settimana dopo, vinse la frazione di Moulins alla Parigi Nizza, superando, in un volatone, un top sprinter come Willy Vannistsen; indi, quattro giorni dopo, sempre allo sprint, la tappa di Manosque. Al Giro d'Italia, colse il successo nella frazione di Torino, dove superò in volata Neri, Fallarini e Gismondi, coi quali s'era involato ad una cinquantina di chilometri dal traguardo. Al Tour, prima di abbandonare durante l'undicesima tappa, vinse la frazione che si concludeva a Namur, nella quale regolò un drappello di una ventina di corridori, fra i quali gran parte dei papabili alla vittoria finale. Chiuse l'anno vincendo il Criterium di Nantes. Fu proprio il successo colto nella principale città della Loira, l'ultimo della sua carriera. Col 1960, infatti, si capì che il Vito Favero che aveva lottato coi grandi, non sarebbe più ritornato. Continuò a correre fino al 1962, raccogliendo ancora diversi piazzamenti, prima di dedicarsi completamente ai frutti di quella terra che ha sempre amato intensamente.
Un paio di ricordi personali.
Conobbi Vito, a fine luglio del 1997, a Cordignano, nell'Alto Livenza, ai confini fra il Veneto ed il Friuli. Era il tempo in cui vivevo, proprio per il ciclismo, in terra veneta, nel trevigiano, la provincia italiana assieme a quella di Bergamo, che più di tutte profuma di pedale. L'unico luogo, ove è possibile trovarsi di fronte a quello che, in Italia, non si pensa esistente: l'organizzazione di una gara ciclistica per dilettanti, con tanto di circuito chiuso a pagamento o ad offerta libera, atto a finanziare la squadra locale di calcio. In quel periodo, quasi ogni sera, fra un'ombra e un chardonnay, incontravo gente per conferenze ufficiali o ufficiose, nei luoghi, spesso, più inusuali. A Cordignano, il comune dove alloggiavo maggiormente, in occasione dell'inaugurazione di una bocciofila, mi ritrovai il solito folto gruppo di ex ciclisti. Sindaco ed assessore allo sport, mi chiesero di animare la serata con qualche storia di ciclismo legata ai presenti, magari coinvolgendoli. Poco dopo, quando ancora non sapevo della presenza di Vito, mi avvicinò una signora di una certa età, elegante ed ancora bella. Mi tese la mano senza presentarsi, chiedendomi se ero davvero quello che le avevano indicato come l'animatore della serata. Alla mia risposta e alla naturale stretta di mano, aggiunse: "Se lei sarà capace di far parlare in pubblico Vito Favero, le farò un regalo". Rimasi in stand by per qualche attimo fra lo stupito, ed il pensieroso, soprattutto alla constatazione di trovarmi quella sfida nelle condizioni meno facili: attorno a quell'impianto, infatti, c'erano centinaia di persone. Più per cortesia che per effettiva convinzione, accettai lo strano concorso propostomi dalla signora, rispondendo con un secco: "E sia!"
Andai da Vito per familiarizzare un poco, prima di impugnare il radio-microfono. Mi fidai ciecamente di quel parco colloquio molto "alla buona", come si direbbe dalle mie parti, e lasciai Favero come l'ultimo della carrellata di personaggi da intervistare e raccontare. La scelta, tra l'altro, si rendeva d'obbligo, perché fra i presenti, era il più prestigioso, ma altresì sapevo che il vedere gli ex colleghi rispondere, avrebbe attenuato il peso dei suoi timori. Come volevasi dimostrare, l'incantesimo si sciolse: Vito colloquiò con me, in pubblico, per una decina di minuti, rispondendomi sempre e senza cercare circostanza. Fu un trionfo per lui, ed un motivo di soddisfazione per me. Avevamo parlato del Tour del 1958, di quello successivo, dei campioni, tanti, che si trovava accanto nel gruppo di allora. Fu applaudito e dal suo "Grazie", capii che si era liberato di un peso che gli gravava da anni. Neanche un minuto dopo la conclusione, quando il buffet si stava aprendo ai presenti col prosecco tipico di quelle zone, la signora che mi aveva lanciato il bonario guanto di sfida, mi raggiunse e m'abbracciò. Il suo volto era raggiante e, stavolta, si presentò: "Sono la moglie di Vito, lei è davvero magnifico, è riuscito a far parlare mio marito. Nessuno, in quarant'anni, c'era riuscito!" Coi Favero ed un gruppo di amici, passai poi il resto della serata. Tanti corridori, aneddoti e storie, fra un bicchiere e l'altro, passarono davanti ai nostri occhi divenuti lenti.
Ai primi di dicembre del medesimo anno, incontrai per la prima volta Charly Gaul. Ero riuscito assieme all'amico Gino Garoia, a portarlo in Italia dopo oltre trent'anni. Arrivò all'aeroporto di Bologna in tarda serata e quando con l'auto guidata da Ercole Baldini, ci stavamo trasferendo a Forlì, ebbi la prima possibilità di ascoltare i racconti di quella stupenda epoca ciclistica. Come mio solito, incalzai per sapere, e non poteva essere diversamente, visti i campioni che stavano con me. Ricordo però un particolare che mi colpi e che poi, nei giorni successivi, ebbi occasione di approfondire: Charly, dopo pochi minuti e prima di ogni altro corridore, ci chiese dove era finito Vito Favero. Il giorno dopo mi disse: "Sai, in quel Tour, andò veramente forte. Mi sono sempre stupito nel non vederlo più a correre per i primi posti del Giro, o del Tour. Nel '58, col caldo che io soffrivo come un cane, lui pareva volare. Sempre attento e pronto ad inserirsi nelle fughe che allora, non come oggi, c'erano sempre. E poi non beveva mai, quando io, con quel calore, mi sarei bevuto una montagna. Ma anche con la pioggia andava. Ad Aix les Bains, credevo che la maglia gialla finisse sulle spalle di Geminiani, invece, fu proprio Favero ad indossarla. Non guardare il distacco che gli diedi: quel giorno andai veramente forte, rifilai a Bahamontes, che sul Luitel era con me, quasi mezz'ora. Fu proprio bravo l'italiano. Poi, nella cronometro di Digione, sapevo che avrei vinto il Tour, ma non pensavo che Favero fosse capace di tenere il secondo posto dall'attacco di Geminiani. Per forza "le grand fusil" (*il soprannome del francese di origine romagnola) era incazzato!"
Maurizio Ricci detto Morris