La storia e l’interesse verso Gunder Hagg, non è nata in me nella fanciullezza, come avvenuto per tanti altri che hanno consumato la loro carriera agonistica, prima della mia nascita o nei primissimi anni della mia vita. A trascinarmi verso di lui, con la conseguente scoper-ta della sua grandezza, non fu nemmeno il mio copioso interesse verso l’atletica leggera, ma, incredibilmente, la constatazione di quanto la storia del tennis fosse stata deviata e compromessa dalla clamorosa idiozia o, per essere eccessivamente buoni, scomodando gli eufemismi, dal “sogno di vedere lo sport ancorato al solo dilettan-tismo”. Insomma, una premessa che va raccontata.
Erano i primissimi anni settanta, frequentavo le superiori in un indi-rizzo sbagliato che mi obbligava o a vivere come marmellata l’idio-sincrasia verso le formule e quella matematica che poteva far diven-tare killer un santo, oppure marinare il più possibile per respirare e farmi una cultura alternativa. Ovviamente scelsi la seconda via e, nella mia acculturazione che poteva essere simile a quella di un fre-quentante indirizzi umanistici, lasciai tanto spazio alla cura dello sport, dalle discipline che mi erano divenute familiari nella fanciullez-za, a quelle che, magari, agli inizi, non mi piacevano. Nacque in quegli anni il meglio della mia cultura, sia sportiva che non, nemme-no l’università riuscì a migliorarmi quanto il generico corso d’autodi-datta che avevo fatto nascere per avversione verso quelle lavagne di formule, di numeri e di sigle convenzionali. Non persi tempo e non fui mai respinto, andai avanti, anche perché ebbi la fortuna di trovare insegnanti che sapevano capire, ed avevano ben inteso che non avrei mai fatto il tecnico o l’ingegnere, ma qualcosa di ben diverso. Non mi regalavano il “6”, ma non erano pignoli, guardavano la logica e se la dimostravo, me la potevo cavare.
Nacque lì, un incredibile rapporto con l’insegnante di elettrotecnica, grande appassionato di tennis e frequentatore assiduo di un circolo. Con e per lui facevo i compiti, non sulla legge di Ohm, il principio di Kirchhoff o le equazioni di Maxwell, ma relazioni sui migliori tennisti dell’epoca. Erano dei veri e propri articoli, o meglio, delle monogra-fie, a cui accostavo ricerche storiche e approfondimenti sui principali talenti a cui pronosticare un futuro. Leggeva tutto ed esaltava le mie disamine portandomi come un esempio di quel giornalismo che avrebbe sempre voluto leggere. La sua stima riuscì a farmi digerire persino la sua orrenda materia, ed alla fine era capace di premiarmi davanti a tutta la classe con un’esternazione come questa: “Vedete ragazzi, non esiste un metodo unico verso l’insegnamento. Se non avessi trovato la chiave per rapportarmi con un letterato come Mau-rizio, lui non avrebbe risolto il problema applicando Kirchhoff, si sa-rebbe preso il suo tre, e tutto sarebbe finito nell’inutilità: lui avrebbe perso tempo in questa scuola, ed io avrei perso l’occasione di fargli capire e conoscere cos’è un circuito elettrico. Non farà il perito, an-che se prenderà il diploma, ma l’imparato gli servirà, ne sono certo. Intanto, a me sta dando tanto, perché leggo avidamente quel che scrive e posso dire che è ormai il mio autore preferito. E poi, ragazzi, di tennis ne capisce e, soprattutto, ha la capacità di criticare pren-dendo sempre il pallino. Ad esempio, sono rimasto folgorato da co-me abbia saputo inquadrare la stupida divisione fra il tennis dei pro-fessionisti e quello dei dilettanti, che ha rovinato questo sport per de-cenni. Scritto da uno che non ha ancora diciotto anni, è il massimo”. Il professore con quella affermazione aveva messo un bastone sulla ferita più dolorosa del mio universo sportivo. Fu pure generoso nel non evidenziare la catena di dispregiativi che avevano accompagna-to la mia disamina, ma la pensava come me e forse era troppo con-tento nel vedere un altro sulle medesime coordinate. Resta il fatto che per svolgere al meglio le mie tesi sulla tragedia di quella divisio-ne nel tennis, ero andato a scavare anche su altre discipline sporti-ve e fu lì che conobbi quello che era stato “l’assassinio” di uno dei più grandi mezzofondisti della storia dell’atletica leggera, proprio lo svedese Gunder Hagg. Di lui avevo letto dei tanti primati mondiali, ma lo pensavo una meteora, perchè ad Europei e Olimpiadi, di questo atleta non c’era traccia, eppure ben sapevo che il meglio del-la sua carriera s’era consumata negli anni ’40, il decennio più tragico del secolo scorso e, probabilmente, dell’intera storia umana. Scoprii che era stato squalificato per aver accettato danaro per partecipare a dei meeting, proprio in quel maggio 1973 e fu il primo, o meglio, l’esempio principe che mi fece capire, quanto anche nello sport imperasse quell’ipocrisia che con l’idiozia non fa solo rima, ma ne contiene un filo conduttore più o meno tenue, o più o meno forte: in sostanza una costante, che si dipana lungo le azioni di un essere to-talmente imperfetto, perciò bellissimo da studiare, come l’uomo.
Gunder Hagg divenne per me il vessillo di quanto lo sportivo-artista vada pagato quando raggiunge certi vertici e, soprattutto, quando è costretto, per tenere fede al meglio del suo possibile, a fare l’atleta come un lavoro. Il professionismo è nelle essenze della vita, diverse sono le entità che concorrono a formulare il suo salario, o stipendio, o cachet e via dicendo. Può essere quindi possibile, che non ci sia quell’orrenda parola che si chiama mercato, ed il frutto delle gesta di un atleta non raggiungano le entrate minime per continuare, ma queste purtroppo sono leggi esistenti, in ogni caso seguenti alla ge-nesi dell’atleta meritevole e professionalmente idoneo a percepire una entrata. Lo sport ha vissuto decenni sul cadavere del pensiero del barone Pierre de Coubertin, una visione, la sua, meramente uto-pistica e, per questo, immediatamente moritura. Crescendo, questa manifestazione del mondo dell’arte, ma pur sempre tassello della vi-ta dell’uomo, ha fatto dell’ipocrisia un’arma in mano a chi lo dirigeva, raramente migliore della media degli sportivi, elevando bugie e ver-gogne. Due su tutte: il doping che è sempre esistito fin dalle Olim-piadi dell’antica Grecia e col quale s’è convissuto e si continua a convivere, fino al punto di far finta di combatterlo, ovvero negli ultimi nove lustri, da quando s’è istituzionalizzato l’antidoping; nonché il professionismo che è stato assurdamente combattuto con estrema disuguaglianza, elevando figli e figliastri e tollerando in silenzio i “professionisti di stato”. Insomma, un coacervo che il sottoscritto scoprì copiosamente nella sua autoctona acculturazione nei primi mesi del 1973, il periodo dove scelse Gunder Hagg come simbolo delle vittime di quest’ultima becera devianza dell’uomo sull’orizzonte dello sport.
L’alba del campione.
Gunder nacque nelle ultime ore del 1918, il 31 dicembre, a Sorbyg-den, un villaggio a nord della già piccolissima Bracke, vicino al con-fine fra la Svezia e la Norvegia. Sua padre conduceva una fattoria, dove la maggior fonte del reddito veniva dall’integrativa attività di boscaiolo, nella adiacente foresta di Albacken, un altro piccolissimo villaggio di quei luoghi freddi ed innevati per almeno cinque mesi l’anno. La madre, casalinga, alla cura delle attività meno pesanti nella fattoria di famiglia, aggiungeva ogni tanto qualche giornata da bracciante presso un altro agricoltore locale. Il piccolo Gunder, an-cora in tenera età fu avviato al lavoro di casa come tradizione del luogo e necessità dei tempi. Il tutto nel pieno del periodo scolare presso quella scuola primaria, la cui sede era distante tre chilometri da casa e che raggiungeva ogni giorno, camminando e correndo nei periodi di tempo meno inclemente e, con gli sci, d’inverno.
Con questi presupposti crebbero nell’Hagg ragazzino, anche le idee di praticare uno sport, tanto più al cospetto della sua superiorità sui coetanei del luogo, sia sugli sci di fondo, quanto sulla corsa po-distica, dove davvero eccelleva. Ma erano solo pensieri, non certo sogni, anche perché la famiglia gli aveva fatto ben intendere che le distrazioni dovevano avere costrutto, poiché la vita non era un gioco.
Tuttavia, nell’intorno dei sedici anni di Gunder, con questi perfetta-mente inserito nel lavoro di famiglia, un fatto cominciò a far riflettere il padre. A Kalarne, un villaggio vicino, il giovane Henry Jonsson (che poi prenderà per tutti l’agnomen della sua località), di sei anni maggiore del giovane Hagg, grazie ai suoi successi nello sport po-distico, aveva ottenuto un ottimo lavoro fra i vigili del fuoco in una “grande città”. Lo sport, dunque, poteva essere un’occasione anche per il figlio di trovare quella sistemazione di vita sempre più stretta fra i boschi e la fattoria. E poi, a vederlo correre, impressionava per la bellezza della falcata. Così, senza che Gunder potesse immaginarne gli intenti, il padre misurò un tratto di 750 metri su un sentiero del bosco dove abitualmente lavoravano e gli disse di correrlo il più veloce possibile, sia in andata che nel ritorno perché voleva vedere se poteva diventare un atleta di valore. Il ragazzo partì e quando tornò, la sveglia del padre disse che aveva percorso quei 1500 metri in 4’45”. La soddisfazione di Hagg senior, che nel frattempo di nascosto dal figlio si era documentato sull’atletica, fu tale, da spingerlo a dire immediatamente a Gunder, che poteva diventare un campione. Era il primo agosto 1936 e, pochi giorni dopo, l’ispiratore di quegli inizi atletici di Hagg, Henry Jonsson di Kalarne, alle Olimpiadi di Berlino, conquistò la medaglia di bronzo nei 5000 metri.
Convinto dalla fiducia del padre, Gunder iniziò a gareggiare e fece in tempo, prima della fine di quella stagione a provarne due, una sui 1500, corsi in 4’14”, ed una sui 5000, percorsi in 16’11”: due performance di nota per un neofita di 17 anni.
Già l'anno seguente, l'intera Svezia divenne pienamente consapevole di questo nuovo eccezionale talento proveniente dalla medesima provincia di Jonsson. Invitato a competere per la prima volta allo Stadio Olimpico di Stoccolma in una gara internazionale sui 3000 metri, Hagg finì 4°, in 8:36.8. A soli 18 anni! Nel 1938 ottenne la pri-ma medaglia ai campionati nazionali assoluti, giungendo secondo, proprio dietro la gloria “Kalarne” sui 3000 siepi, allora specialità non olimpica. Ma quando s’avviava ad un 1939 con ambizioni di vertice, fu colpito da una grave forma di polmonite che lo fece finire per settimane in ospedale. Lasciò il nosocomio con la pesantissima sentenza dei medici, secondo i quali avrebbe fatto meglio a rinunciare a tutti i piani di ritornare allo sport competitivo.
La scorza mentale di Hagg però, era di livello superiore e non ascoltò i consigli: decise di trasformare la ferma per il servizio militare nel nord della Svezia, in una palestra per riprendere gli allenamenti, nonostante il freddo molto intenso di quell’inverno fra il 1939 ed il 1940.
Con l’Europa seppellita fra le bombe della Seconda Guerra Mondiale, Gunder, approfittò della neutralità della Svezia, per ritornare alle gare e, nella prima estate della nuova decade, scoprì d’essere tra i più forti mezzofondisti al mondo. In due gare, anche se terminate entrambe al secondo posto dietro a Henry Kalarne, fu autore di tempi incredibili. Il 4 agosto, Hagg chiuse i 1500 metri in 3’48”8, ad appena un decimo dal famoso avversario, che stabilì, nell’occasione, il record svedese. Dieci giorni dopo, il 14 agosto, Kalarne abbatté il primato del mondo dei 3000 metri in 8’09” e Gunder corse in 8’11”8, comunque sempre tre secondi in meno del vecchio record mondiale. Questi risultati spinsero il giovane Hagg a passare sotto l'influenza del già famosissimo Gosta Olander. Si trattava di un allenatore considerato stravagante, semplicemente perché aveva fatto della corsa podistica una filosofia di vita. La chiamava la “gioia di correre”. In stretto contatto con la natura, ed il sincronia con essa, si dovevano imprimere i propri ritmi, quasi a voler raggiungere un avversario-orizzonte immaginario. Gunder, si adattò benissimo agli allenamenti di Olander, che si dipanavano tutti lungo i sentieri della foresta di Valadalen, la palestra di vita, oggi monumento, di quel grande tecnico filosofo. Nel 1940 dunque, l’evidenza del ventunenne figlio d’un boscaiolo, si era vista tutta, ma fu nel 1941 che nacque il mito, poi dimenticato e sfregiato di Hagg.
Il talento di Gunder
Per descrivere le possibilità di questo straordinario atleta, dobbiamo necessariamente guardare con attenzione due aspetti: il suo fisico e la sua straordinaria adattabilità alla messa a punto.
Alto, slanciato, con un compasso lunghissimo, in possesso di un cuore e conseguenti apparati cardiovascolare e cardiocircolatorio incredibili. Una cassa toracica perfetta, come perfetto era l’equilibrio degli arti. Notevole anche l’apparato muscolare, composto da un missaggio ideale fra le maggioritarie fibre rosse, quelle della fatica, e le minoritarie bianche, quelle della velocità. In sostanza un insieme di facoltà ideali per fare di Hagg, lo stereotipo del mezzofondista.
Altro particolare incredibile, la sua grande capacità di adattare gli appoggi di corsa a quella leggerezza che sempre si ricerca nelle prove podistiche. Aldilà delle qualità di nascita, gran parte delle bellezze e delle tangibilità del talento di Gunder, si poterono affinare e rendere lucenti attraverso l’ambiente in cui era cresciuto e quelle lunghe frequentazioni di boschi e foreste negli allenamenti. Qui, parte il secondo grande aspetto che ha fatto di questo grandissimo mezzofondista, un totem storico della specialità, indipendentemente da quegli albi d’oro che sovente sono sirene per ricercatori e storici: la sua grande capacità di assorbire qualsiasi allenamento che Olander gli proponeva. Abbastanza per poter dire che i due, con le scoperte e le possibilità di un oggi, avrebbero potuto segnare ugualmente la storia di questo sport. La resistenza di Gunder, infatti, si allargava alla tenuta dei suoi arti e dei suoi muscoli, con la conseguenza di diminuire anche sotto il minimo le probabilità di incorrere in infortuni, nonostante corresse su fondi pesanti a livello campestre e su piste, composte dalla prima tennisolite della storia, ovvero quella più granulosa e facilmente sconnessa, perché meno trattata in assoluto. I problemi che potevano insorgere su Hagg, dunque, poche volte avevano origine diretta nello sport, semmai gli stop potevano giungere da malattie e malanni comuni, ed anche su questo aspetto, considerando i tempi ed il precedente della polmonite, la salute complessiva di Hagg si mostrò buona nel momento in cui si apprestava ad entrare nel ruolo di pretendente al protagonismo nel mezzofondo dell’atletica leggera. All’alba del 1941, dunque, il filiforme ragazzo venuto dai boschi del nord della Svezia, incantava per il suo stile composto di corsa, l’amplissima falcata, ed una cadenza che sapeva velocizzare, quando si trattava di avvicinare il filo di lana con un avversario vicino. Era pronto per divenire “l’uomo renna”.
Il suo lustro stellare
Nel 1941, le ingombranti presenze dettate dalla grandezza del maturo Henry Jonsson-Kalarne e le qualità di un semi-coetaneo, ed in gran crescita come Arne Andersson, stimolarono non poco l’ascesa di Hagg, il quale, in mancanza di un calendario internazionale degno, visto il conflitto mondiale, iniziò a pensare esclusivamente a correre non solo per superare gli avversari in pista, ma anche per stabilire delle performance di assoluto valore storico. E questa sua caccia, nonostante l’età, che anche a quei tempi, non vedeva i mezzofondisti esplodere a livello assoluto in gioventù, il 10 agosto, a 21 anni e mezzo, superando in gara i due grandi connazionali, divenne primatista mondiale sui blasonatissimi 1500 metri, correndo la distanza in 3'47"6. Il teatro dell’impresa fu lo Stadio Olimpico di Stoccolma e il detronizzato, niente popò di meno che il Campione Olimpico in carica, il neozelandese John Lovelock, che aveva corso a Berlino in 3’47”8. La conquista del prestigiosissimo limite mondiale, per la gioia ulteriore di suo padre, gli valse l’assunzione come vigile del fuoco a Gavle.
L’esplosione di Gunder, unica nella storia per dimensioni, avvenne però l’anno dopo, nel 1942, quando tra il primo luglio e il 20 settembre, stabilì dieci primati mondiali, tutti quelli possibili fra i 1500 e i 5000 metri, gareggiando senza risparmio e con una sbalorditiva capacità di seguire le tabelle di corsa che gli aveva suggerito Olander. E dire che il suo crescendo non era potuto partire normalmente, attraverso competizioni di prova, a causa di una sospensione per i motivi che poi segneranno, qualche anno dopo, la fine anticipata della sua carriera: l’aver “leso il dilettantismo”. Dopo la conquista del record mondiale dei 1500 metri il 10 agosto 1941, infatti, Gunder aveva accettato degli ingaggi per correre in alcune cittadine della Svezia, e ciò aveva spinto la Federazione svedese di atletica e sospenderlo dall’attività, fino al 30 giugno 1942. Il suo primo assalto vincente fu quello contro il record del miglio, proprio in quel primo luglio che rappresentava pure il suo esordio stagionale.
Sulla pista di Goteborg, Hagg, esaltò quel talento di cui tutti parlavano, superò lautamente i fortissimi connazionali e percorse la distanza in 4'06"2, contro i 4'06"4 del britannico Sydney Wooderson, stabiliti nel ’37.
Due giorni dopo, sul medesimo impianto conquistò anche il meno nobile record mondiale delle due miglia, correndo in 8’47”8. Il 17 luglio, a Stoccolma, fece tris, abbassando il suo limite iridato sui 1500 metri, di quasi due secondi, portandolo a 3’45”8! La neutrale Svezia, aldilà delle tragiche notizie che giungevano dal conflitto, poteva così stringersi su un comunque piccolo motivo di gioia, attraverso le imprese di quel suo figlio che si stava impadronendo, a suon di prestazioni come nessuno, non solo dell’atletica, ma degli stessi sogni e dell’orgoglio di un popolo. Ma il buon Gunder non era nemmeno alla metà della sua opera leggendaria.
Lasciata Stoccolma e raggiunta la pista di Malmoe, il 21 luglio servì il poker, facendo suo anche il record del mondo dei 2000 metri, portandolo a 5’16”4. Questo limite però, che aveva migliorato di soli 4 decimi il precedente primato, non poteva soddisfarlo, ed il 23 agosto, dopo una stop di due settimane per una malattia infantile come la varicella, ad Ostersund, diede una dimostrazione di quanto sapesse frantumare i parametri che si credevano umani, abbassando il suo record del mondo di quasi cinque secondi: percorse i due chilometri in 5’11”8! Decise così di allungare la gittata verso lunghezze che lo vedevano quasi neofita, ma il tenore del suo dominio non cambiò, anzi. Il 28 agosto, distrusse il limite mondiale dei 3000 metri appartenente al suo ispiratore e connazionale Henry Jonsson Kalarne, portandolo a da 8’09” a 8’01”2!
Tornato a Stoccolma, il 4 di settembre frantumò stavolta il suo limite mondiale sul miglio, correndo in 4’04”6, quasi due secondi in meno. Una settimana dopo, sulla medesima pista della capitale, il suo talento sciorinò un’altra perla conquistando il record mondiale delle 3 miglia, correndo la distanza in 13’35”4. Questa performance lasciava presagire mostruose possibilità anche sulla nobilissima distanza dei 5000 metri, ed infatti, pur non avendo mai corso da atleta affermato su quella lunghezza, il 20 settembre, sull’anello di Goteborg, Gunder Hagg, aprì un raggio di luce nelle telescriventi destinate a raccontare il conflitto, con una impresa tecnica tra le più grandi dell’intera storia della atletica leggera. Dopo aver seppellito di decine e centinaia di metri gli avversari in quella giornata storica, corse dapprima le 3 miglia in 13’32”4, tre secondi in meno del suo limite mondiale e, proseguendo fino ai 5000 metri, frantumò il record del mondo della distanza, fin lì appartenuto al finlandese Taisto Maki, abbassandolo di 10”6: da 14'08"8, ad un incredibile 13'58"2! Hagg, era così il primo uomo a percorrere la distanza sotto quei 14 minuti che, i tecnici del tempo, pensavano raggiungibili non prima del 1960.
A soli 23 anni, Gunter era divenuto, “l’Uomo renna”, con un borsino pieno di 11 primati mondiali, dieci nella sola mezza stagione ’42, dove si era schierato alla partenza 32 volte e 32 volte aveva vinto. Un ruolino che aveva creato la genesi di una fama che l’aveva eletto, in Svezia, a riferimento e vanto dell’intero paese. Non solo, ma anche negli Stati Uniti, il suo nome risuonava di echi profondi al punto di spingere gli organizzatori e gli atleti statunitensi, all’assoluta volontà di conoscerlo e sfidarlo. Ed infatti, nel 1943, fu invitato ad una lunga tournée che avrebbe dovuto toccare otto città, per otto sfide diverse fra di loro. Hagg accettò, ed in primavera si mise in viaggio. Con la Seconda Guerra Mondiale al culmine, la trasferta avvenne tramite nave e fu assai più lunga del previsto, al punto di spossarlo. Ciononostante, anche in quella estate, mantenne l’imbattibilità sulle piste, vincendo tutte otto le gare, ma pur limando diversi record relativi al suolo statunitense, non migliorò nessun primato mondiale. Intascò migliaia di dollari e trovò pure l’amore di una affascinante californiana virtuosa della fisarmonica, che stava per sposare. Poi, quando decise di rimandare il matrimonio alla prova della lontananza e stava per prendere la via del ritorno, fu raggiunto da due brutte notizie: Arne Andersson, il maestro elementare che non si arrendeva mai, gli aveva tolto i primati del mondo dei 1500 metri (3’45”) e del miglio (addirittura di 2 secondi: 4’02”6).
Tornato in Svezia, Hagg iniziò a preparare il 1944 con l'obiettivo di riprendersi i record persi. Scoprì ben presto due realtà: l’esigenza di riavere pieno possesso di quei suoi ritmi di vita e d’allenamento che s’erano alquanto minati nei mesi di trasferta e di viaggio, nonché la sua, incredibilmente, cresciuta popolarità. In Svezia il suo nome era divenuto la base degli stessi successi commerciali di tanti prodotti.
S’erano create le scarpette Hagg, gli occhiali da sole Hagg, il dentifricio Hagg, persino le caramelle Hagg e tanto altro ancora. L’aspetto che lo lasciava più incredulo però, era che tutto s’era ulteriormente cementato nonostante la sua assenza e l’esplosione di un grande avversario, anch’egli svedese, come Andersson. Insomma, ingredienti nuovi che spinsero non poco a fare del primo grande scontro-rivincita fra i due, un avvenimento coinvolgente l’intera nazione.
Il grande duello, si consumò il 7 luglio 1944, al Slottsskogsvallen di Goteborg, su quei 1500 metri che vedevano Gunder nel non certo facile compito di smentire coloro che avevano scritto di un probabilissimo sorpasso del “maestro elementare sull’uomo renna”. La gara raccolse una folla immensa, Hagg partì a grande velocità come se dovesse gareggiare sui 400 metri e tenne la testa della corsa dal principio alla fine.
L’ipocrisia d’una fine...
Nell'autunno del ‘45, a guerra finita, un giornale della sera della capitale svedese, annunciò con clamore che grandi atleti svedesi avevano accettato, nascondendole, ricompense in danaro per ciascuna delle circa cinquanta riunioni che s’erano svolte durante l'estate. “Un gruppo di organizzatori - così diceva il giornale - aveva suddiviso le città secondo una graduatoria di importanza e stabilito per i corridori vere e proprie tariffe”.
Un campione della levatura di Hagg, poteva guadagnare, per ogni manifestazione, circa 13.000 euro attuali nelle grandi città, 8500 nelle medie e 4500 nei piccoli centri. L’Athletics Association, la Federazione svedese, aprì una profonda inchiesta, che si concluse il 17 marzo 1946, con la squalifica per “leso dilettantismo” di una ventina dei suoi maggiori campioni, taluni dei quali ed Hagg, Andersson e l’ormai vecchio Jonsson-Kalarne fra questi, addirittura a vita. Per loro finiva lì, con la carriera, anche il sogno di giungere tanto alle Olimpiadi di Londra, quanto ai vicinissimi Campionati Europei di Oslo.
Era lapalissiano che nel mondo dell’atletica di quei tempi, come del resto negli altri sport, tutti gli atleti di vertice, ricevessero di sottobanco degli ingaggi o dei premi extra in danaro, perlomeno ciò avveniva, quando la disciplina praticata muoveva abbastanza per giungere a questa abitudine e necessità. Era altrettanto vero che le Olimpiadi si stavano progressivamente gonfiando di professionisti pure alla luce del sole, ma coperti da governi dello sport sempre più ipocriti. Il dilettantismo si stava sciogliendo, ma le nazionali, i gruppi sportivi militari, le università con relative borse di studio, il professionismo di stato la dove insisteva il cosiddetto real comunismo e altro ancora, erano le chiavi assurde che coprivano quel sottobosco professionale ogni giorno più ampio. Insomma, un sistema crescente, che si voleva celare per tenere fede ad un principiò già morto, che è stato causa di illusioni di massa su ciò che è, e sempre sarà, lo sport.
Gunter Hagg, è stato probabilmente il più grande atleta ogni sport, vittima di quell’atteggiamento da “gatto che copre la popò con uno strato di sabbia o polvere”, ma a differenza del collega Andersson, che subì un affronto capace di sfregiarlo indelebilmente fino all’ultimo giorno di vita, prese la squalifica con straordinaria filosofia.
In fondo era giunto all’atletica per non vivere le fatiche immani del boscaiolo, per avere poi un mestiere e guadagnare sui frutti del suo straordinario talento. In altre parole, per gli stessi motivi che animano la professionalità di un falegname, o il genio quasi sempre professionale di un pittore. Aveva guadagnato abbastanza, o meglio, s’era fatto un nome che poi gli poteva garantire posizioni. Nel ’41, grazie al talento atletico era divenuto un vigile del fuoco, conseguentemente stipendiato. Nel ’44, s’era trasferito a Malmoe, per vivere lì il dopo carriera, ed aveva aperto assieme ad altri un negozio di abbigliamento soprattutto sportivo. Quello era il suo futuro. L’orizzonte su cui gratificare la moglie Margherita, ed i tre figli, certo coi ricordi, ma pure con quel quotidiano che alla fine è tutto per poter continuare a vivere decentemente.
Quando gli imposero lo stop aveva solo 27 anni, praticamente l’età in cui i mezzofondisti iniziano a dare il meglio. Non era probabilmente il suo caso, ma il lustro precedente era stato sufficiente per rasserenarlo. Morì il 27 novembre 2004 ad 85 anni, da uomo che fino alla fine, ebbe modo di dire che si sentiva realizzato.Maurizio Ricci detto "Morris"