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    Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza.

    Morris l'originale
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    Vuelta al País Vasco
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    Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza. Empty Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza.

    Messaggio Da Morris l'originale Ven Lug 18, 2014 9:46 pm

    Oggi 18 luglio 2014, è il compleanno di un altro grande dello sport italiano: Giacinto Facchetti avrebbe compiuto 72 anni. Lo voglio ricordare con l’intervento che feci il giorno in cui passò a giocare a calcio sul campo dell’immortalità.


    Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza. Facche10


    Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza.


    Guglielmo, detto “Bargamén”, il bidello reso sciancato da una bomba a mano durante la seconda guerra mondiale, aveva due vizi: tenere sempre a puntino il livello di frumento nel “recipiente della sofferenza”, ove chi non sapeva bene le “tabelline” era costretto, per punizione, ad adagiare le ginocchia; nonché mettere sempre troppo inchiostro nei calamai. Un giorno di febbraio del 1963, mentre frequentavo la seconda elementare, il comunque simpatico vecchietto Bergamén, si superò: il mio calamaio, al pari di quello di diversi altri, era davvero sull’orlo della tracimazione. Maria, la nostra ligia ai doveri e severa maestra, non tardò molto ad accorgersi del pericolo che gravava sui nostri grembiuli e sui vecchi legni di quei banchi. Non volendo richiamare l’anziano bidello, per l’enorme rispetto che provava per lui, ordinò alla batteria dei Maurizio - ben quattro, due in seconda classe ed altrettanti in prima - di provvedere con carte assorbenti, ed un paio di piccoli recipienti di fortuna che s’era da tempo costruita lei stessa, a riportare il livello d’inchiostro a limiti ragionevoli. Quei piccoli lavoretti occasionali in classe, al pari del giardinaggio e del giornalino di classe, rappresentavano il suo modo di interpretare la didattica universale di Cèlestin Freinét, un grande pedagogista che i più fortunati di noi, han poi avuto occasione di studiare. Quel giorno dunque, toccava ai portatori di quel nome, così in voga nei genitori degli anni cinquanta, far vedere la loro abilità. E lei, Maria, coi suoi occhi nascosti da lenti chissà perché scure, dopo la consegna dei materiali accessori, come tante altre volte, si eclissò per raggiungere la collega dell’aula al piano superiore, dimora delle classi terza, quarta e quinta elementare. Quel suo atteggiamento, aveva una ragione che spiegò più volte a mia sorella, già maestra, ed insegnante di uno sperimentale doposcuola: non voleva metterci in imbarazzo e lasciarci liberi di interpretare ogni improvvisato mestiere. A me, Maurizietto, nella classificazione di vezzeggiativi, diminutivi e superlativi, a cui era costretta, per dividerci dalla omonimia dei nomi, toccò il ruolo di capoclasse in quel segmento operativo e la responsabilità di fare un bel lavoro. Iniziammo il delicato “travaso” con la massima attenzione, ma sul banco di Fesani - bambino intelligente, ma più vecchio di noi in quanto bocciato per ragioni di famiglia all’esame di seconda - l’inchiostro, a causa di un urto sul banco, era tracimato finendo addirittura sul pavimento di granito ruvido. Pulirlo non era facile, bisognava passare lo straccio a gran velocità, prima dell’assorbimento. “Fesa”, come lo chiamavamo tutti, mi disse che se fossi riuscito a cancellare le tracce dell’accaduto, mi avrebbe regalato la figurina di un calciatore. Preso com’ero dalla preoccupazione di trovarmi responsabile, senza colpa, del pavimento macchiato, non pensai alla promessa e al suo contenuto per me abbastanza nuovo e, come un fulmine, presi uno degli stracci che stavano nel bagno, lo inzuppai d’acqua e lo passai velocemente sul granito. Con mia somma soddisfazione, ne uscì un lavoro perfetto: non si vedeva traccia dell’inchiostro. Nel frattempo, gli altri Maurizio, avevano ultimato bellamente il riordino in sicurezza dei calamai. Ero salvo e “Fesa”, già bravo col pallone a dispetto della miopia, mantenne la promessa. S’alzò dal suo banco, si tolse dalla tasca del grembiule nero una figurina grossa di cartone (niente di simile a quelle d’oggi e di pochi anni dopo) e me la diede. “Lo so che preferisci giocare coi coperchini e vuoi diventare un corridore – mi disse - ma siccome dici che sei dell’Inter, anche se ti piace Sivori, io ti do la figurina di un interista. Chissà che non ti venga voglia di giocare con noi domenica in parrocchia, ho visto che corri forte”.
    Ringraziai il “Fesa” che, dell’Inter, era il capo tifoso della scuola e guardai per la prima volta “quell’oggetto” a me sconosciuto. Osservai il volto di un ragazzo castano biondo e lessi le sue generalità: Giacinto Facchetti – Internazionale. Guglielmo, detto “Bargamén”, il bidello reso sciancato da una bomba a mano durante la seconda guerra mondiale, aveva due vizi: tenere sempre a puntino il livello di frumento nel “recipiente della sofferenza”, ove chi non sapeva bene le “tabelline” era costretto, per punizione, ad adagiare le ginocchia, nonché mettere sempre troppo inchiostro nei calamai. Un giorno di febbraio del 1963, mentre frequentavo la seconda elementare, il comunque simpatico vecchietto Bergamén, si superò: il mio calamaio, al pari di quello di diversi altri, era davvero sull’orlo della tracimazione. Maria, la nostra ligia ai doveri e severa maestra, non tardò molto ad accorgersi del pericolo che gravava sui nostri grembiuli e sui vecchi legni di quei banchi. Non volendo richiamare l’anziano bidello, per l’enorme rispetto provava per lui, ordinò alla batteria dei Maurizio - ben quattro, due in seconda classe ed altrettanti in prima - di provvedere con carte assorbenti, ed un paio di piccoli recipienti di fortuna che s’era da tempo costruita lei stessa, a riportare il livello d’inchiostro a limiti ragionevoli. Quei piccoli lavoretti occasionali in classe, al pari del giardinaggio e del giornalino di classe, rappresentavano il suo modo di interpretare la didattica universale di Cèlestin Freinét, un grande pedagogista che i più fortunati di noi, han poi avuto occasione di studiare. Quel giorno dunque, toccava ai portatori di quel nome così in voga nei genitori degli anni cinquanta, far vedere la loro abilità e lei, Maria, coi suoi occhi nascosti da lenti chissà perché scure, dopo la consegna dei materiali accessori, come tante altre volte, si eclissò per raggiungere la collega dell’aula al piano superiore, dimora delle classi terza, quarta e quinta elementare. Quel suo atteggiamento, aveva una ragione che spiegò più volte a mia sorella, già maestra, ed insegnante di uno sperimentale doposcuola: non voleva metterci in imbarazzo e lasciarci liberi di interpretare ogni improvvisato mestiere. A me, Maurizietto, nella classificazione di vezzeggiativi, diminutivi e superlativi, a cui era costretta, per dividerci dalla omonimia dei nomi, toccò il ruolo di capoclasse in quel segmento operativo e la responsabilità di fare un bel lavoro. Iniziammo il delicato “travaso” con la massima attenzione, ma sul banco di Fesani - bambino intelligente, ma più vecchio di noi in quanto bocciato per ragioni di famiglia all’esame di seconda - l’inchiostro, a causa di un urto sul banco, era tracimato finendo addirittura sul pavimento di granito ruvido. Pulirlo non era facile, bisognava passare lo straccio a gran velocità, prima dell’assorbimento. “Fesa”, come lo chiamavamo tutti, mi disse che se fossi riuscito a cancellare le tracce dell’accaduto, mi avrebbe regalato la figurina di un calciatore. Preso com’ero dalla preoccupazione di trovarmi responsabile, senza colpa, del pavimento macchiato, non pensai alla promessa e al suo contenuto per me abbastanza nuovo e, come un fulmine, presi uno degli stracci che stavano nel bagno, lo inzuppai d’acqua e lo passai velocemente sul granito. Con mia somma soddisfazione, ne uscì un lavoro perfetto: non si vedeva traccia dell’inchiostro. Nel frattempo, gli altri Maurizio, avevano ultimato bellamente il riordino in sicurezza dei calamai. Ero salvo e “Fesa”, già bravo col pallone a dispetto della miopia, mantenne la promessa. S’alzò dal suo banco, si tolse dalla tasca del grembiule nero una figurina grossa di cartone (niente di simile a quelle d’oggi e di pochi anni dopo) e me la diede. “Lo so che preferisci giocare coi coperchini e vuoi diventare un corridore – mi disse - ma siccome dici che sei dell’Inter, anche se ti piace Sivori, io ti do la figurina di un interista. Chissà che non ti venga voglia di giocare con noi domenica in parrocchia, ho visto che corri forte”.
    Ringraziai il “Fesa” che, dell’Inter, era il capo tifoso della scuola e guardai per la prima volta “quell’oggetto” a me sconosciuto. Osservai il volto di un ragazzo castano biondo e lessi le sue generalità: Giacinto Facchetti – Internazionale.
     
    Caro Giacinto, sei entrato in me così.
    Oggi, ti piango, nonostante sapessi da giugno, quale lotta impossibile t’attendeva. Non si è mai preparati a notizie del genere e poi, che preparazione ci può essere di fronte all’irreparabile!

    Oggi, ho riguardato i fotogrammi del tanto trascorso da quel giorno lontano. Istantanee e contenuti che avrei voluto stendere e narrare diversamente, senza l’angoscia del vuoto che si determina in ricordo cosparso di dolore. Scrivere così è sempre una gran sofferenza e la lucidità si scioglie come burro al sole. Eppure, la tua ellisse non può sfuggire al bisogno di raccontarti, come le tue valenze meritano. Sei stato un grande atleta prima ancora che come giocatore, ed un uomo accompagnato dall’antico e nobile timbro della lealtà. Lasciamelo dire Giacinto: sei stato uno d’altri tempi. Migliori s’intende. Ttroppo intensi per non farne un patrimonio indelebile per chi li ha potuti solo sfiorare. Ed anche da qui, ci viene la rabbia per l’imbecillità che ci ha ridotti ad essere moncherini di un genere. Sì Giacinto, mi sentirò presto con quelle voci che ogni tanto mi avvinghiano in un bisogno che si condensa fra sogno, infatuazione e gratificazione, fino a spingermi all’esser visto pazzo, perché rimescolo le figure che ho incontrato o solo visto su questa terra. Lì, caro campione di sport e di vita, c’è quell’incontro inconscio, che crea la personale voglia di scolpire dei totem, i simboli di un tratto eterno, l’unico definibile per chi non sa quel che verrà dopo. Lì, nel racconto, c’è l’unica opera che conosco senza togliermi qualcosa. Raccontare dei monti, degli esempi, delle cornici che voglion trattenere, per l’osservazione più oggettiva, il fulgido. Lì, ci sei tu Giacinto, come tutti quegli uomini che sono nati atleti e che han illustrato, spesso senza sapere, un messaggio. Solo questo so fare e tu, con una vita in cui gli errori si sono mossi circoscritti al tenue normale delle imperfezioni umane, hai irrorato nel silenzio di chi non si ricerca, perché è, i continui bagliori di una scuola antica. La vita ha creato lo sport per testimoniare un suo significativo tassello e tu l’hai interpretato con canti che echeggeranno perennemente, stordendo i tentacoli delle barbarie di quello che è diventato il mondo che t’ha visto tenore.
    Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza. Facche11


    Il grande atleta
    Quando la Trevigliese lo portò al calcio, non furono pochi quelli che si intristirono nel vedere un simile fisico, al di fuori dell’atletica leggera. Già, Giacinto era un atleta sublime, uno che avrebbe potuto praticare con profitto una marea di sport. Il suo corpo era nato perfetto: gambe lunghe, muscolari, con cosce e polpacci pronunciati senza offendere giunture che parevano uscite da uno scultore dell’antica Gracia. Un corpo lungo il giusto per non disarmare la proporzione con le gambe, ed una cassa toracica e due spalle pronte a formare un trapezio rovesciato: la famosa “V”, che pareva l’ispiratrice delle matite dei creatori di Superman o Batman. L’accostamento di certe foto di Giacinto con quei due celebri fumetti è impressionante ancor oggi .....nell’era del “modellatore” GH. Ma il fisico perfetto, non sarebbe stato sufficiente a fare di Facchetti quello che abbiamo visto. In lui insistevano capacità coordinative incredibili per un uomo di quella stazza atletica, ed un equilibrio di fibre da lasciare a bocca aperta. Giacinto salutava le “rosse” della fatica, con una resistenza che ha pochi paragoni per l’era in cui ha vissuto, fatta di allenamenti meno ricercati e, soprattutto, senza quel lungo elenco di integratori più o meno giustificabili e/o leciti di oggi. Il suo recupero, per fare un paragone ciclistico, era degno di un grimpeur di razza, ed in più sapeva mettere sul campo, l’altro parte del consesso delle fibre: le bianche della forza.
    Certo, perché Facchetti era veloce, sapeva contrastare come pochi, anche se si tratteneva altrettanto come pochi, nel non voler far pesare il suo fisico. Possedeva pure una incredibile esplosività, che si esaltava nei colpi di testa e che si determinava a buoni livelli anche nell’aspetto meno adatto ad un fisico come il suo: lo scatto. Vedere un gigante muoversi in mezzo ad alette scattanti come quelle della sua epopea, senza far la figura del tordo, testimoniava, anche su quel versante, le sue straordinarie qualità. Il suo piede, lungo e ben poco ideale per trattare con sensibilità e forza il pallone, riusciva a partorire comunque giocate inaspettate: i suoi passaggi erano precisi, i suoi tiri micidiali e persino il tocco fioco determinante per i dribbling, non possedeva i brividi della precarietà. Ne usciva così un uomo naturalmente portato al calcio atletico di oggi che, per i suoi tempi, poteva determinare, come è stato, una collocazione nello scacchiere in grado di fare scuola. Infatti, fu il primo europeo a poter essere definito terzino fluidificante. I casi precedenti, un paio, erano entrambi sudamericani: il brasiliano Nilton Santos in particolare e l’argentino Marzolini, almeno fino a quando, ancor giovane, non fu spostato a fare il libero, divenendo il primo fluidificante per quel ruolo che, poi, a fine carriera, ricoprirà lo stesso Facchetti.
    Altro aspetto pronto a testimoniare la grandezza atletica di Giacinto: non ha mai subito infortuni molto gravi, anzi potremmo dire che, salvo l’ultima stagione, i suoi acciacchi, sono stati ben sotto il livello morfologico di rischio per un atleta da sport di contatto.
    Ho visto il capitano dell’amata Inter quattro volte dal vivo e, per quattro volte, mi son chiesto quanto la televisione lo normalizzasse nel fisico. Era un atleta che ti lanciava ogni volta la domanda…… come fosse possibile essere così. Credo che a Scienze Motorie, anziché prendere ad esempio di studio i tanti artefatti di oggi, calciatori e non, sarebbe positivo l’acquisto di un cassa di filmati sul grande Giacinto.
     
    L’atleta uomo
    Dire che Facchetti era un giocatore corretto, è il minimo. Oggi, un calciatore col suo fisico, non perderebbe occasione per dimostrarsi….roccioso. Giacinto marcava pulito, anzi le botte, sovente, era lui a prenderle.... ed assorbirle d’incanto. La pulizia dei suoi interventi, a memoria, ha un solo emulo in un altro giocatore della grande Inter: Aristide Guarneri. Sempre a memoria, credo che abbia subito meno di una cinquina di ammonizioni. Di sicuro una sola espulsione, nel 1975, non già per un fallo, bensì per aver applaudito ironicamente l’arbitro.
    Era il capitano perfetto, nell’Inter e nella Nazionale. Da notare che delle 94 presenze in azzurro, ben 70 le ha giocate con la fascia, un record.
     
     
    Il dirigente
    Una dichiarazione di Massimo Moratti (che potrà essere un ingenuo per l’eccessivo filantropismo verso i giocatori, ma nessuno potrà dargli la patente di testa di ...........), definisce un aspetto certo del suo rapporto con Facchetti: “Non ho fatto in tempo a ringraziarlo ulteriormente per tutta la pazienza che ha avuto con me!” Ecco, la pazienza, la bontà d’animo, il suo amore verso quella società che gli ha dato modo di esprimere compiutamente le sue grandi facoltà, sono i tratti evidenti del Giacinto dirigente. Le testimonianze e l’affetto che s’è guadagnato in tutti gli allenatori che Moratti con facilità ha defenestrato, sono la riprova della sua caratura di uomo, degno di quello che era stato come atleta.
     
     
    Un aneddoto
    Un ragazzo della mia zona, che ha giocato nelle giovanili del Cesena alla fine degli anni settanta, nelle prime stagioni in bianconero, ebbe occasione di fare diverse volte il raccattapalle allo stadio Manuzzi. Bene, mi ha sempre detto che di quella esperienza, ricorda un solo giocatore, così gentile da ringraziarlo mentre gli porgeva o lanciava la palla per la rimessa in gioco: Giacinto Facchetti.



    Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza. Facche12


    A Giacinto Facchetti
     
    Guardo gli altri dall’alto
    perché la natura m’ha fatto così
    ma non voglio essere diverso,
    ed allargo il cuore per toccare
    ciò che ci han dato per essere migliori
    fino a fare del sorriso una parola.
     
    Vorrei come tutti accarezzare il cielo
    ma m’accontento di un segno,
    di un grumo di lealtà
    per definirmi e sentirmi davvero uomo
    senza i luccichii apparenti
    così peggiori del buio.
     
    So che ogni mio gesto
    è guardato e vissuto da tanti,
    non posso confondere ed irridere
    è doveroso lasciare aperte le porte
    per le vie i cui lati sono tinti di rispetto
    e non disdegnano il sole.
     
    Sono fortunato nel mio cammino,
    è cosparso di fiori, gioie e speranze,
    sarebbe troppo avvilente
    farne luogo di dominio
    o tracciarne ripetuti gioghi
    per incontrare i sorrisi degli scolari boia.
     
    Abbracciare l’onestà della fatica
    consapevole del tanto ricevuto
    sapendo che nel mondo
    ci son crepe e sangue che non vivo
    per questo sono quel che sono
    ed ho fatto della tolleranza uno stile.
     
     

    Maurizio Ricci detto Morris
     
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    Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza. Empty Re: Giacinto Facchetti: quando l’atletismo sublime s’incarna con lealtà ed eleganza.

    Messaggio Da perobeach Mer Ott 15, 2014 1:08 pm

    Castano chiaro.
    Anch'io, nelle partite (poche) che andavo a vedere tra la fine degli anni '60 e la prima metà dei '70, lo vedevo castano chiaro.
    Lo contemplai l'ultima volta, in campo, nella sfortunata finale di Coppa Italia del luglio 1977 ( 2-0 per il Milan).
    L'Inter giocava in maglia bianca e lui, al cospetto dell'età che, prima della canizie, cambia il colore dei capelli dal chiaro allo scuro, era diventato biondo.
    Biondo sul candore della veste che indossava quella sera.

      La data/ora di oggi è Sab Nov 23, 2024 12:00 am