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    Messaggio Da Admin Lun Lug 29, 2013 8:39 pm

    Promemoria primo messaggio :

    "L'Angolo de' Ristori Ciclointellettuali" by CarLemond.
    Apro questo 3D da dedicare in gran parte ad un amico conosciuto in rete, nella rete che non ha età, nazionalità e sempre meno barriere linguistiche. A parte quelle che il bischero Lemondaccio ci imporrà con la sua verve franco-empolese.
    Lemond, come tutti i personaggi, ha idee sue originali e discutibili (mi focalizzo su discutibili) e quindi apriamo la ... discussione.flower


    Ultima modifica di Admin il Dom Ago 04, 2013 1:00 pm - modificato 3 volte.

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    L'ANGOLO DE' RISTORI CICLOINTELLETTUALI - Pagina 15 Empty Re: L'ANGOLO DE' RISTORI CICLOINTELLETTUALI

    Messaggio Da Lemond Ven Gen 16, 2015 10:41 am

    I ciclisti Erranti, a cura del Chiarugi

    Prima puntata 11/01/2004

    Invocazione alle muse e prima avventura alla conquista delle sacre paste dell’oste Bazzani.



    Canto le gesta dei ciclisti erranti

    che pedalavano nei dì di festa

    a caccia di dolciumi ridondanti.

    Pedalavan insieme a cercar gesta

    come gregge di pecore belanti

    con solenne andatura e poco lesta.

    Son d’Empoli e di luglio vanno al Tour,

    si chiaman nientemen che Empolitour.



    La fama lor è già dimolto opima

    in tutte le locande del reame,

    nei bar e nei rifugi d’ogni cima,

    e quest’anno le nostre umili brame

    saranno di diffonderla anche in rima

    sì che la fama eguagli la lor fame,

    ma per abbandonar l’usata prosa

    qui ci vuole una musa fantasiosa.



    È facile la vita dell’Ariosto

    che canta i cavalier, l’arme e gli amori.

    Si metta a verseggiar al nostro posto

    di soste-Pagni e fiacchi corridori,

    di paste, di pattona e girarrosto,

    di Caparrin che ponza e fa sudori.

    Son cavalier non d’arme ma d’orpelli

    ed han di donne (e manna) la Bertelli.



    È facile cantar d’eroi e d’agoni

    prendendo dalla storia epico spunto,

    ma se l’eroe è ciclista coi coscioni

    orrendi ed appuzzanti di vil unto,

    pure l’estro di Tasso e di Tassoni

    sarebbe in comprensibil disappunto

    ed io che son della materia incolto

    canterò ciò ch’ancora non s’è svolto;



    canterò tutta l’opera in diretta

    sperando che la musa n’abbia voglia

    e dopo un canto o due non si dimetta.

    Perché mi sa che l’arte qui s’imbroglia

    e invece d’esaltar la bicicletta

    costoro esalteran la pastasfoglia.

    Con la lusinga di finir in versi

    si spera almen che sappian contenersi;



    si spera che invogliati dal poema

    questi ciclisti dalle grosse taglie,

    dopati dalle paste con la crema,

    ingaggino mirabili battaglie

    sulle salite, dove ognuno frema

    d’involarsi coll’impeto di quaglie:

    l’Empolitour sedotta dalle ottave

    diventerà una squadra forte e grave.



    Guidati dal nocchiero Caparrini,

    Bertelli, Tempestin, Chiarugi, Nucci,

    Pagni Arconte e Transgenico Boldrini,

    Bagnoli Elle, Giunti, Ziodipucci

    e Pucci, tutti ugual nei completini

    biancoazzurri, così larghi e carucci:

    la squadra varierà di fase in fase

    ma questa è già la formazione base.



    La prima impresa stesa a canovaccio

    fu quella al luculliano Bar Bazzani,

    nella famosa terra di Boccaccio.

    L’odor di bomboloni sovrumani

    giungeva fin ad Empoli in Via Baccio,

    sembrava di toccarli con le mani,

    parevan già fra i denti le frittelle

    e tutti scalpitavan sulle selle.



    La conquista del Sacro Bombolone,

    scaldava dei ciclisti il cor nei petti.

    Prima però c’è una sostituzione:

    Pucci fa spazio al bradipo Boretti

    che, imprevedibil per definizione,

    arriva quando meno te l’aspetti.

    Il campanile intanto scocca il don

    quando Boretti arriva col pompon.



    “Ma la Bertelli arriva o non arriva?”

    Tutti gridavan in ansioso coro.

    La dama è più del solito tardiva

    e i cavalier uniti a concistoro

    eran pronti a lasciarla alla deriva.

    “Questo ritardo è contro ogni decoro,”

    diceva Caparrin più che impaziente

    “ma se si lascia sola, chi la sente?”



    Sopra a rigor vinse diplomazia

    che fe’ la dama attesa in pompa magna

    per colpa, disse, d’una vecchia zia.

    Ma quando il gruppo uscì per la campagna,

    pria d’imboccare l’agognata via

    ella indugiò per salutar la cagna,

    e mentre abbaia il cane e canta il gallo

    sparisce anche Boldrin tinto di giallo.



    Baldo e leggiadro come Polifemo,

    ecco Boldrin coll’asociale cappa

    e con due labbra ch’a pensarle tremo.

    Son dunque tutti uniti per la tappa,

    c’è pure il giallorosso Borchi Remo,

    che parte insieme e sul più bello scappa.

    Boldrin ha labbra turgide e biancastre,

    e il gelo sulle pozze fa le lastre.



    In quella parte del giovanetto anno…

    Comincerebbe Dante, e per far breve

    gli rubo questo verso senza affanno,

    per dir che c’era brina come neve

    e il moccio al naso parve il minor danno,

    contro il dolor di piede freddo e greve.

    “È caldo e mi son messo due calzini.”

    Disse per consolarci Caparrini.



    Chiarugi, privo di coibente grasso,

    com’usano Bagnol, Borettti e Pagni,

    insorse mentre il gruppo andava a spasso,

    dicendo: “Si rassega, o bei compagni,

    a pedalar con questo blando passo.

    Statemi dietro e che nessun si lagni.

    Il freddo mi molesta, son Chiarugi

    e per far rima romperò gli indugi.



    Si va formando uno sbuffante treno

    al quale sol di Sughera la rampa

    pone repente inevitabil freno.

    “Il mio desio di bombolon avvampa.”

    Esclama Nucci e in un battibaleno

    un rude scatto sui pedali stampa.

    Boldrini ci rimane un po’ di vetro

    e non riesce proprio a stargli dietro.



    Ondeggia Nucci ormai senza contegno,

    tanto l’idea di paste gli dà brio.

    S’inarca e si contorce con impegno

    per appressarsi al fin del suo desio

    e in questo perde della strada il segno

    trascinando in error Boldrini e Zio.

    Chiarugi, che li osserva filar dritto,

    per giusta via va in testa zitto zitto.



    Come se non bastasse, a rallentare

    l’approdo dal Bazzani ci s’aggiunge

    pur Tempestin che fora il tubolare.

    E mentre Tempestin le mani s’unge

    per cambiare la ruota, Nucci pare

    un ansio calabron che ronza e punge.

    “Dagli una mano, orsù, Bagnoli Elle,

    ché sennò si raffreddan le frittelle!



    Vedrete il Bar Bazzan quant’è opulento,

    quanto ridondan le sue sacre paste.

    Caffè egli serve in vetro, in oro e argento.

    Finor le soste sono state caste:

    questa ne vale in lusso almeno cento

    di quelle nostre più sfarzose e faste.”

    Quando transita Nucci per Gambassi

    ha fame che divorerebbe sassi.



    La sua saliva si profonde in laghi

    che scorrono copiosi su Certaldo.

    Bagnol, Boldrin, Boretti son presaghi

    e taglian corto al casalingo caldo.

    Gli altri d’ogni altra attesa son già paghi

    e guardan Nucci salivante e baldo,

    poi guardan Bar Bazzan con facce serie

    e leggon cubital CHIUSO PER FERIE.



    Ahi dura strada perché non t’apristi?

    Non osan proferir nessun avverbio

    gli infamati e affamati miei ciclisti.

    Fu più lo scorno o l’interior diverbio

    che li rese quel giorno magri e tristi?

    Risponderà Boccaccio col proverbio:

    chi pedala nel clima dell’Alaska

    sempre finisce che lo piglia in tasca.


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    Messaggio Da Lemond Lun Gen 19, 2015 8:34 am

    Paradiso II

    Con la rapidità di una saetta Beatrice, Dante ed io giungiamo al secondo cielo, Mercurio, in cui stanno come splendori fiammeggianti e danzano, le anime beate di coloro che furono attivi per conseguire onore e fama. Incontriamo l'imperatore Giustiniano. Ci racconta: dopo che Costantino portò l'aquila dell'impero a Bisanzio e lì stette per 200 anni, governando il mondo da un imperatore all'altro ,divenne imperatore proprio lui, Giustiniano. Fu convertito da papa Agapito. Affidò le armi a Belisario e lui si dedicò alle opere di pace. (Conviene ricordare il riordinamento giuridico dell'impero, Corpus iuris civilis (534). Giustiniano per questa grande opera, formò una commissione di giureconsulti sotto il questore Triboniano. L'opera si compone di 4 parti: 1) Istituzioni in 4 libri, i princìpi del diritto adatto alle scuole; 2) Digesto o Pandette (dal latino digerere= Disporre classificando in modo ordinato; pandette dal greco = onnicomprensivo) in 50 libri, raccolta di sentenze dei maggiori giuristi dei primi 3 secoli dell'impero; 3) Codice giustinianeo in 12 libri raccolta di leggi da Adriano a Giustiniano ; 4) Novelle, raccolta di leggi emanate dopo la pubblicazione del codice ( 534-536). E' tutto in latino, fuorché la seconda parte delle Novelle in greco. Il codice è conservato nella Biblioteca laurenziana di Firenze.)

    Giustiniano ci fa un lungo resoconto sul volo meraviglioso dell'aquila romana, danneggiata spesso dagli stessi guelfi e ghibellini. Poi ci parla di un'anima beata che sta nel cielo di Mercurio Romeo da Villanova, onestissimo siniscalco di Raimondo Berlinghieri IV, conte di Provenza: fece sposare convenientemente le figlie del conte, calunniato, si ritirò per sempre dalla contea. Beatrice capisce che Dante ha un dubbio sulla morte di Cristo, che secondo Giustiniano fu vendicata con la distruzione di Gerusalemme. C'è un lungo discorso fra i due, da cui sono distratta perché sento la solita energia che mi fa volare al meraviglioso cielo di Venere, seguita da Dante e Beatrice, che rifulge (infatti via via che ascendiamo ai cieli superiori, aumenta lo splendore della donna) intensamente. Nel III cielo di Venere ci sono i beati che amarono; ora si muovono rapidamente in tutta luminosità. Incontriamo Carlo Martello, che racconta con gioia di essere Carlo Martello D'Angiò, forse conobbe Dante nel 1294 quando si recò a Firenze: Se fosse vissuto di più avrebbe dato a Dante la prova del suo affetto.Poi parla del malgoverno degli Angioini, nonostante fossero suoi discendenti. Purtroppo nascono figli degeneri da genitori virtuosi. Dopo un lungo discorso sull'influenza degli astri, conclude: se le attitudini naturali, invece di essere valorizzate, sono represse a forza e deviate, non può che derivarne un disordine per la società. Parliamo anche con Cunizza da Romano, che dopo una vita dissipata si dette in Firenze a vita modesta e pia. Poi con Folchetto di Marsiglia trovatore del XII , che dopo una vita avventurosa si fece monaco e fu vescovo di Marsiglia. Egli lancia un'invettiva contro Firenze, che per il maledetto fiorino ha disviato il gregge dei cristiani. Voliamo ora verso il cielo del Sole, dove sono le anime dei sapienti e dottori della chiesa, esse sono disposte in tre corone concentriche di vivi fulgori che danzano in giro cantando. Si parla con S. Tommaso d'Aquino dell'ordine domenicano . Egli insegnò teologia a Parigi, Colonia e Napoli; scrisse la Summa theologica , su cui studiò molto Dante, come ora mi dice. Poi ci indica dodici beati, fra cui Alberto Magno, Salomone, Paolo Orosio, Severino Boezio e Sigieri di Brabante, che forse Dante conobbe a Parigi.
    (Già detto nella vita del mio amico Dante) Dio diede alla chiesa 2 grandi guide: S. Francesco d'Assisi e S. Domenico. San Tommaso ci narra la vita di Francesco. Dalla fertile costa del monte Subasio tra i fiumi Tupino e Chiascio, nacque un sole così splendente che Assisi dovrebbe essere chiamata oriente. Egli manifestò subito un grande amore per una donna che gli uomini fuggono come la morte, madonna POVERTA'. Per essa affrontò l'ira del padre e del vescovo di Assisi. Dietro il suo esempio si “scalzarono”Bernardo Egidio e poi Silvestro e tanti altri, che cinsero il cordone francescano. Saluti con scuse “emicraniche” da Anna Bini
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    Messaggio Da Lemond Mer Gen 21, 2015 9:11 am

    Paradiso III

    Francesco con alcuni compagni andò a Roma. Il papa Innocenzo III approvò il programma dell'ordine francescano, poi confermato da papa Onorio III. Purtroppo la missione di Francesco in terre d'oltremare presso il sultano d' Egitto Malek-al-Kamul, che pur trattandolo bene non si convertì, fu vana. Allora Francesco tornò in Italia, e sul monte Alvernia, tra Tevere e Arno, ricevette le sacre stimmate. Poi quando Dio lo chiamò a sé, raccomando ai suoi frati madonna povertà. Un altra grande guida è S. Domenico. Ma i frati non tutti hanno seguito le sue orme e sono molto corrotti.. Tommaso conclude “u' ben s'impingua se non si vaneggia”, cioè nell'ordine dei Domenicani ci si arricchisce di bene se però non si vaneggia ossia non ci si dà ai beni materiali. Dall'altra corona dei beati si stacca S. Bonaventura (Bonaventura da Bagnorea 1221-1274 francescano e dotto teologo) per narrarci la vita di S. Domenico. Egli nacque in Spagna a Calaroga, governata dai re di Castiglia . Già nel ventre materno la sua anima era colma di eccelsa virtù. Al suo battesimo furono celebrate le nozze con la fede, fu chiamato Domenico, cioè del Signore. Condivise con altri seguaci l'amore per la Povertà: non chiese nulla al papa, se non di predicare contro l'eresia a favore della chiesa. Da lui nacquero vari ordini religiosi. Purtroppo anche l'eccelso esempio di Francesco non è seguito da molti frati che vanno verso la corruzione. Dopo una lunga discussione di S. Tommaso sulla sapienza , c'è un ammonimento verso gli uomini, che affermano o negano senza riflettere e cadono spesso in errori gravi. Guardando Beatrice ci sentiamo presi da un gran desiderio di volare verso il cielo di Marte, dove sono le anime di coloro che combatterono e morirono per la fede. Esse si muovono nella luminosità e cantano per poi formare una croce greca su cui sfolgora Cristo. Da un braccio della croce si stacca un beato,che è addirittura Cacciaguida, trisavolo di Dante. Egli si manifesta come tale e narra a Dante che nacque a Firenze, quando la città era piccola compresa nella prima cinta di mura, quelle di Carlo Magno. Allora era “sobria e Pudica”: le donne erano umili e modeste, i nobili giravano con abiti semplici, non c'era la ricerca di denaro e di potere, come è invece nella Firenze di Dante, corrotta dalle famiglie del contado inurbate, portatrici di delinquenza. Purtroppo un gran male a Firenze fu provocato da Buodelmonte de' Buondelmonti che mancò alla promessa di matrimonio con una degli Amidei. Per questo fu ucciso e da lì le lotte fra guelfi e ghibellini. Cacciaguida ebbe 2 fratelli, Moronto ed Eliseo, che sposò una Aldighieri di Ferrara, da lei ebbe origine il cognome Alighieri. Cacciaguida prese parte alla seconda crociata e mori combattendo contro i musulmani. Ascoltando, mi rendo conto che in tutte le epoche si rimpiange sempre il bel tempo andato! Dante viene a sapere dal trisavolo il triste futuro di esule: tu lascerai ogni cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l'arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e il salir per l'altrui scale. Ci intratteniamo con altre anime beate del cielo di Marte. Beatrice diventa sempre più luminosa e bella. Infatti siamo ascesi più su, nel cielo di Giove, dove stanno le anime beate di principi saggi e giusti. Esse sono lumi che volano e cantano, formando le parole “Diligite iustitiam qui iudicatis terram” amate la giustizia, voi che siete giudici in terra. Poi formano un aquila. Da qui Dante pensa che la giustizia provenga dagli influssi del cielo di Giove e prega Dio di portare tale influsso sulla curia romana, da dove esce il fumo della cupidigia che offusca la divina giustizia. L'aquila formata dai beati parla con Dante intorno alla giustizia divina che è imperscrutabile agli uomini, poi accenna alle opere malvagie di prìncipi cristiani, che danneggiano tutta l'umanità. Dante si meraviglia che fra i beati del cielo di Giove ci siano le anime di Traiano e di Rifeo, pagani. Traiano grande imperatore romano (98- 117) conquistò terre, allargò, i confini dell'impero, fece opere di giustizia (vedi, quando ascolta la vedova a cui hanno ucciso il figlio).Traiano fu magnificato molto al di là dei suoi meriti. Mori e come pagano andò nel limbo... Saluti e celestiali scuse da Anna Bini
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    Messaggio Da Lemond Sab Gen 24, 2015 10:22 am

    Seconda puntata 25/01/2004
    Ardimentosa spedizione all’antico maniero del pistoiese Caffè Valiani

    Mai doma dal destin, ognor invitta
    è d’un ciclista errante la virtute,
    così pur Nucci dopo la sconfitta
    non domo fu d’altre proposte astute,
    e sull’ingegno suo che non s’affitta
    le nostre carte non staranno mute.
    “Possa” egli disse “tirar qui le cuoia
    se non andremo a conquistar Pistoia!

    Là c’è locanda nobile e feconda,
    Pasticceria Valian per l’esattezza,
    dove ogni pasta lievita e ridonda.
    La sua vetrina è un’arte di dolcezza,
    la mia saliva al sol pensier già gronda
    e questa volta gronda in sicurezza,
    perché da fonti certe m’informai
    che stamattina è aperta e poi giammai.”

    E Caparrin che contraddir non osa
    l’astuto segretario, fa il suo conto
    di chilometri e poi lo mette in prosa:
    “Di tanta sosta, certo, non m’adonto,
    però sarebbe assai gradita cosa
    non limitarci a un vile San Baronto,
    perché sennò, se il conto mio non guasta,
    un chilometro vien per ogni pasta.”

    Ma l’estro non è merce limitata
    ai maschi Empolitour, come si pensa,
    perciò parlò la callipigia fata:
    “Io vi propongo gita bella e intensa
    che per silvestre strada e perturbata
    ci conduca alla dolce ricompensa.”
    (Caparrin per sussiego non protesta
    ma di nascosto già scuote la testa).

    “Grillaio, Signa, Carmignan, Pinone
    e Vitolini e Faltognan e Vinci.”
    La fata snocciolava il suo sermone.
    “E su per San Baronto, e quindi e quinci
    giù verso la meringa e il bombolone.
    Venite meco fidi, orsù, perdinci!”
    (Caparrin saggio e provvido satrapo
    sempre più intensamente scuote il capo).

    Chissà se fu la mattinata grigia
    o Caparrin che troppo il capo scosse,
    oppur sapevan che non troppo ligia
    a questioni geografiche ella fosse,
    ma dietro alla Bertelli callipigia
    nessun ciclista Empolitour si mosse
    ed ella in modo tacito e compito
    se la legò bonariamente al dito.

    “Maledetti da Zeus ciclisti maschi!”
    Disse compita. “Pane per focaccia,
    il pene vi si strozzi e poi vi caschi.
    E abbiate sete e vuota la borraccia,
    e fame senza cibo che s’intaschi,
    o vi vada a traverso e pro vi faccia
    il caffè col cremoso maritozzo
    e v’ustioni la lingua e il gargarozzo.”

    Tanto gentile e tanto onesta pare
    che tutti per scongiuro o per prudenza
    si toccan dove il sol non va a brillare,
    e quando scocca l’ora di partenza
    v’è sol certezza per il desinare
    ma per la via non vince preferenza.
    “Diamoci” disse il duca “almen l’abbrivio
    e poscia si decida ad ogni bivio.”

    “Vedrete” disse Nucci “il pistoiese
    Caffè Valiani quant’è ricco e antico.
    Che sono quelle facce bieche e tese?
    Io son Nucci polifago e vi dico
    che vedrete di paste ampie distese
    e fumante caffè raro e lubrico,
    mi par già di veder la bianca spuma
    di quel caffè che fiocca e che profuma.”

    In effetti qualcosa venne a fiocchi,
    ma non era l’onirica bevanda,
    era una neve vera e senza abbocchi.
    Poco piacque alla truppa veneranda
    questa canizie sulla via e sugli occhi,
    sì che fu gara per tornar in branda.
    La vinse dopo un miglio Remo Borchi.
    “La via di casa qui convien che inforchi.”

    Secondi a riabbracciar gli usati letti,
    quando sentiron ghiaccio sulla zucca,
    furon Boldrin e il bradipo Boretti.
    “Ma dove andate, gente vile e stucca!”
    Gridava invano Nucci a quei negletti.
    “Tornate indietro, gente vile e crucca!”
    E mentre ciò gridava, Caparrini
    fuggiva nel biancor con Tempestini,

    con Pagni, Giunti e il fido Elle Bagnoli
    che se ne andò dopo pochi secondi.
    E lor, col passo di chi fa pinoli,
    pedalaron asciutti e inverecondi.
    Ben sei crudel se tu già non ti duoli
    pensando a come Nucci si sprofondi:
    niente Valiani ma cipolla e pane,
    e pedalar su neve con il cane.


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    Messaggio Da Lemond Dom Gen 25, 2015 8:47 am

    Paradiso 4

    Secondo una leggenda popolare Traiano per le preghiere di San Gregorio Magno, che lo apprezzava soprattutto per il senso di giustizia, fu fatto rivivere e nella seconda vita acquistò tanti meriti da meritare il paradiso. Vediamo chi era costui:

    San Gregorio I (Magno 590 -604) Gregorio aveva già avuto un papa nella sua famiglia (Felice III), era di nobile lignaggio e destinato alla carriera politica e nel 572 l'imperatore Giustino lo nominò prefetto di Roma. Ma lui non era sodisfatto della carica a causa dello squallore politico di Roma e decise di troncare la carriera per entrare invece in un monastero benedettino. Gregorio conduceva ivi un'esistenza di preghiera e solitudine, con frequenti digiuni; il tutto sotto la guida dell'abate Valentino. Fu però notato da papa Pelagio, che ritenne opportuno mettere a disposizione dell'amministrazione della Chiesa quel monaco che aveva acquisito molta esperienza al servizio dello Stato. Lo scopo principale di Pelagio era però quello di inviare Gregorio a Costantinopoli per chiedere aiuti sostanziosi all'imperatore, contro i Longobardi. Dal 579 al 586 il monaco stette a Bisanzio, dove gli furon impartite lezioni di politica e lotta teologica. Gregorio supplicò il nuovo imperatore (Maurizio) perché provvedesse alle necessità di Roma e nel 584 ottenne l'invio di un "dux" (anche lui di nome Gregorio) e del "magister militum" Castorio, che liberarono la città e pattuirono con il nemico una tregua triennale. Di lì a poco la tregua fu rotta, ma l'imperatore non aveva intenzione di fare altri sforzi, perché ormai Roma non aveva più quasi più nessun interesse per Bisanzio! Pelagio giudicò che era meglio sostituire il suo rappresentante in loco e farlo ritornare al convento. Erano anni tristi per l'Italia, perché oltre ai Longobardi, si registravano altre devastazioni, dovute allo scatenarsi degli elementi naturali, soprattutto piogge torrenziali: campi e poderi si trasformavano in pantani e uomini ed animali morirono in gran numero e nel 589 il Tevere allagò una parte della città. La conseguenza più grave fu una terribile epidemia che "decimò" la città e il 7 febbraio 590 ne fu vittima anche Pelagio II. La situazione così drammatica imponeva l'immediata elezione di un nuovo papa e la scelta cadde all'unanimità su Gregorio, che, in attesa della conferma dell'imperatore, non si tirò indietro per l'assistenza alla comunità, con sacre funzioni e preghiere; in una predica esortò i fedeli alla penitenza e a riporre in Dio ogni speranza, pregandolo con tutto il cuore e organizzò una grande processione durata tre giorni. Fu un corteo funebre per Roma moribonda e, all'improvviso una visione soprannaturale pose termine alle litanie e al contagio: il popolo vide librarsi nell'aria, sopra la mole Adriana, l'arcangelo Michele che, davanti agli occhi attoniti dei fedeli, rinfoderò la sua spada fiammeggiante, come per significare che la pestilenza era finita. (Nota mia, in altre parole era stato dio a mandarla e poi è davvero un peccato che allora non ci fossero i telefonini, altrimenti tutti noi ancor oggi potremmo vedere su youtube la bella faccia dell'arcangelo Michele ) Proprio in conseguenza di questo episodio il mausoleo di Adriano cambiò nome e divenne Castel Sant'Angelo.
    Alla fine di quella processione, giunse finalmente da Costantinopoli la conferma dell'elezione di papa Gregorio, il quale espresse i suoi timori di fronte all'alta missione che gli era affidata, perché per lui la Chiesa era un relitto alla deriva e ormai si avvicinava la fine del mondo.
    Gregorio, per prima cosa, ripulisce la corte pontificia, allontanando molti laici e diaconi che erano sempre stati la fonte principale di simonia, dando incarichi ai monaci benedettini, che gli assicuravano la purezza dei sentimenti religiosi e poi si dedica alla sua città, pagando cinquecento libbre d'oro all'anno al re longobardo Agigulfo, che nel 593 toglie l'assedio. A Bisanzio si pensava che il comportamento non fose stato dignitoso e Gregorio scriverà all'imperatrice Costanza chiarendo che il papato si è sostituito al potere temporale dell'impero, che per quanto riguarda Roma, non esiste più! Ormai Roma e Bisanzio sono separati e nel 598 sarà firmata la pace con i Longobardi. Il papa si comporta con i propri sudditi allo stesso modo degli antichi romani: fa dispensare grano, abiti e denaro ai "capite censi". Insieme alla pace ci fu l'intensa attività di evangelizzazione dei Longobardi e degli Anglosassoni, grazie anche all'aiuto di Teodolinda, moglie di Autari e poi di Agilulfo e la religione cristiano-romana cominciò ad espandersi in tutta europa nord-occidentale. Dal lato strettamente religioso rivolse particolare attenzione all'ordinamento del culto, riformando la Messa, ma soprattutto redasse un nuovo libro dei canti: l'Antiphonarius, volgarmente chiamato canto gregoriano ed è soprattutto quest'ultima sua opera che si ricorda ancor oggi e forse è per questo che è stato fatto Santo.


    Rifeo invece ebbe dalla Grazia divina il dono della visione della futura redenzione, ebbe il battesimo delle tre virtù teologali e, dopo la morte di Cristo, ascese al cielo. Questi sono esempi di predestinazione i cui modi di operare sono sottratti all'intelligenza dell'uomo. Beatrice ci fa sapere che la sua luminescenza è tale che non la possiamo sostenere, comunque siamo già nel cielo di Saturno, dove sono le anime di coloro che si diedero a vita contemplativa. Qui sono splendori che salgono e scendono una scala d'oro di cui non si vede la sommità. Si parla con l'anima beata di Pier Damiani 1007-1072, che visse in un eremo presso il monte Catria , una vita di penitenza , fu anche vescovo di Ostia. Sono molto contenta di parlare con S. Benedetto da Norcia, fondatore dell'ordine benedettino, e del convento di Montecassino, innalzato sulle rovine di un tempio pagano dedicato ad Apòllo. Purtroppo anche lui si scaglia contro la corruzione della chiesa e dei monasteri. Ci accorgiamo dietro un cenno di Beatrice di essere molto in alto, dai sette cieli, vediamo la terra piccola e misera. Siamo ora, meraviglia delle meraviglie, nel cielo delle stelle fisse, dove si trovano le anime trionfanti, che sono lucerne illuminate dai raggi che escono dalla gran luce di Gesù. C'è anche Maria Vergine in uno splendore indescrivibile. Intorno alla quale volteggia l'arcangelo Gabriele. Gli esami non finiscono mai!!! Anche in Paradiso Dante viene “interrogato” da S.Pietro sulla Fede, che è sostanza di cose sperate. Il vate crede fermamente che se il mondo si convertì al cristianesimo senza miracoli, il miracolo stesso della conversione supera tutte le incetezze. Dante conclude “Credo in un Dio solo ed eterno. Pietro è soddisfatto di Dante, gira tre volte intorno a lui e lo benedice, cantando. Poi è la volta di S. Jacopo che parla con Dante della Speranza, che è certa attesa della gloria futura, che è prodotta dalla grazia divina e dal merito di ciascuno.” Sperino in te coloro che sanno il nome tuo. San Giovanni Evangelista, altra anima trionfante esorta Dante a dire, quando tornerà sulla terra, che i soli corpi in cielo sono di Gesù e di Maria. Tutte le anime beate saranno complete quando il numero dei beati sarà quello voluto da Dio. Poi San Giovanni parla con Dante della carità che è l'amore supremo di Dio verso gli uomini. La creazione del mondo, l'uomo creato da Dio, la morte di Gesù per la redenzione umana hanno confermatoin Dante l'amore divino senza traviarlo verso sentimenti terrreni. Anche questa volta Dante supera l'esame, e il cielo risuona di un dolcissimo canto “Santo santo santo”. Ora Dante può sostenere lo splendore del Paradiso e si accorge che con S Pietro, S.Jacopo, S.Giovanni c'è un'altra luce in cui è l'anima di Adamo, che chiarisce a Dante di non essere stato cacciato dal Paradiso terrestre per aver mangiato il frutto proibito, ma per aver disubbidito a Dio. Lui è stato 4302 anni nel Limbo e 930 sulla terra. Si parlava una sola lingua finché i giganti ribelli a Dio furono puniti confondendo i loro idiomi. S. Pietro diviene rosso in volto e inveisce contro la corruzione dei pontefici. Sono lupi rapaci, travestiti da pastori. Dante ed io siamo invitati da Beatrice a guardare i cieli sottostanti e rimaniamo sbalorditi dalla distanza che vediamo. Nel nono cielo (ultimo cielo o cielo cristallino o primo mobile) ci sono le gerarchie angeliche distribuite in 9 cerchi di fuoco, che girano intorno ad un punto luminosissimo, che è Dio. Si chiama primo mobile perchè riceve da Dio il movimento, trasmettendolo ai cieli sottostanti. Beatrice dà un lunga spiegazione a Dante sui 9 cieli e sui 9 cerchi angelici. Il linguaggio di Beatrice è per me molto ostico, quasi incomprensibile, comunque tento di capirci qualcosa; Dio non resta mai inoperoso e nella creazione collocò le sostanze angeliche nell'Empireo, le sostanze materiali sulla terra. Non si sa bene quando avvenne la creazione degli angeli, secondo San Girolamo avvenne alcuni secoli prima della creazione del mondo, ma ciò è stato confutato. Poi alcuni angeli... Saluti e scuse assai confuse da Anna Bini


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    Messaggio Da Lemond Mer Gen 28, 2015 10:01 am

    Paradiso 5

    ... si ribellarono a Dio e furono precipitati sulla terra, il “capo” di questi, Lucifero, Dante lo ha già conosciuto confitto al centro della terra, il signore delle tenebre. Si parla ora della creazione degli angeli, del loro numero e delle loro facoltà. Secondo alcuni teologi gli angeli hanno intelletto, memoria e volontà. Beatrice li confuta, dicendo che le creature ebbero e hanno la gioia di vedere Dio senza mai distogliere lo sguardo e quindi non hanno bisogno di memoria, giacché il loro vedere non è mai interrotto.
    Mi rendo conto che il mio procedere con Dante è impossibile,dopo il cielo cristallino, perché non ne ho le capacità e forse impazzirei. Il mio amico mi copre gli occhi e mi sussurra ciò che vede. E' il sommo Empireo! C'è una fiumana di luce, da dove escono angeli in forma di faville, che si posano su fiori luminosi; i beati, poi essi assumono la forma di una rosa che si allarga sempre più, fino alle ultime foglie , che sono i seggi dei beati. Su uno di questi troni si siederà l'anima di Arrigo VII di Lussemburgo, prima che Dante muoia. Egli tenterà di riordinare l'Italia ma la cupidigia degli uomini, simili al bimbo che “ muor per fame e caccia via la balia”, glielo impedirà , Anche il papa Clemente V sarà a lui ostile e, con altri papi, sarà fra i simoniaci. Dante mi dice di non vedere più Beatrice, allora un vecchio vestito di bianco dal viso pieno di letizia, gli dice che la beatissima è nel terzo giro della rosa; egli la può guardare nel suo massimo fulgore, perché ormai i suoi occhi sono degni di tal vista. Dante così la onora “O donna in cui la mia speranza vige, e che soffristi per la mia salute, in inferno lasciar le tue vestige, di tante cose quant'i' ho vedute, dal tuo podere e da la tua bontade riconosco la grazia e la virtute. Tu m'hai di servo tratto a libertate per tutte quelle vie, per tuttt'i modi che di ciò fare avei la potestate. La tua magnificenza in te custodi sì che l'anima mia, che fatt'hai sana piacente a te dal corpo si disnodi.” Addio, Addio grande ispiratrice, anima sublime!!! Non mi resta che posare il capo su una spalla di Dante e ascoltarlo ad occhi chiusi. Il santo vecchio non è altro che S. Bernardo di Chiaravalle (Fontaine-lés- Dijon 1090, Abbazia di Clairvaux 1153), monaco francese dottore della chiesa, fondò il monastero Cistercense di Clairvaux e tanti altri. Alcuni cistercensi, presero da lui il nome di Bernardini. Sostenne la teologia monastica che sbocca nella preghiera e nella contemplazione, scrisse molte opere, tra cui Sermoni, De consideratione, De diligendo deo. Bernardo mostra a Dante i beati della rosa celeste, poi i pargoli e parla della salvazione delle loro anime. Il santo guarda poi verso Maria e le rivolge una preghiera. Io ascolto senza vedere . “Vergine madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d'etterno consiglio. (Stabilita come meta certa della redenzione) Tu se' colei che l'umana natura nobilitasti sì, che il suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura (che Dio che l'aveva creata non disdegnò di farsi procreare da lei) .” Per tutti i meriti che hai, ascolta la supplica che ti rivolgo per Dante “Or questi che da l'infima lacuna de l'universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto che possa con li occhi levarsi più alto verso l'ultima salute.”
    M'immagino e mi auguro che Dante abbia raggiunto il suo più alto desiderio: Vedere Dio!!! L'amor che move il sole e le altre stelle. E colle stelle del cielo fiorentino termina il viaggio col mio amico Dante, certo non è l'Empireo sfavillante di luci , ma è per me un gran bel vedere! Very Happy

    Saluti e scuse finali...ma forse no! Anna Bini Devo pensare ad un argomento atto ad essere chiosato da Monami alias Carlo Ristori o scriverò un soggetto allegro se ...
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    Messaggio Da Lemond Dom Feb 01, 2015 8:45 am

    Terza puntata 08/02/2004

    Per strade fangose e incolte i ciclisti erranti celebrano la prima dolce conquista.



    “Che fai tu luna in ciel? Dimmi che fai

    silenziosa luna. Dimmi se il cielo

    vuol essere latore d’altri guai.

    Oggi mi par mattino di disgelo,

    l’ha detto pur Bernacca sulla RAI,

    ma vedo sulla via l’umido velo

    che in quelli come Elle Bagnoli schivi,

    dubbi può suscitar gastrolesivi.”



    Questo di Caparrin fu il primo canto,

    a lei che in alto biancheggiava stanca

    in un grigiastro e diseguale manto.

    “Somiglia a quella della luna bianca

    la vita del ciclista, però intanto

    un sol minuto alla partenza manca

    e già son pronti addirittura in sei

    a sfidare le nubi e gli alisei.”



    Addirittura c’è Bagnol che sfata

    l’appartenenza al ceto degli stucchi,

    ed altri arrivano alla spicciolata,

    com’uva che per chicchi si pilucchi;

    in giusto orario arriva pur la fata

    e, udite, udite, il giovine Malucchi

    che, dopo gare ed incliti compagni,

    ritorna in bici per le soste-Pagni.



    Giocondo Caparrin altro non prega,

    vede pure il bionico Trasacco

    che, fatto metà in carne e metà in lega,

    con poco sforzo a tutti dà distacco,

    e il francofilo Cerri che non nega

    d’aver prodigio tra ginocchio e tacco:

    egli ha possenti sopra le calosce

    due polpacci che sembran proprio cosce.



    Per rimaner in coscia, “Ma Boldrini,

    che fine ha fatto?” disser tutti insieme

    quando giunser Boretti e Tempestini.

    “È lì” rispose Caparrin “che freme

    a contar le magagne ed i quattrini

    di cui son ora le sue tasche sceme,

    per aver dopo mesi da De Rosa

    una bici sfregiata e difettosa.”



    L’assenza del belligero ciclista,

    col qual son tutti uniti e solidali,

    con sollievo agonistico fu vista,

    perché senza Boldrin che lancia strali

    il gruppo perde il fin della conquista

    e s’ammoscia pacato sui pedali,

    diciamo pure ch’è una vera pizza

    narrar senza il transgenico ch’attizza;



    però dobbiamo andare pur avanti

    nella pacifica puntata terza

    dei nostri cavalier che sembran fanti,

    su strade buone a coltivar la verza

    con fango, buche, solchi e bivi erranti

    ai qual nessuno sa dove si sterza,

    verso i paesi dagli accenti sdruccioli

    pedalavano miti come cuccioli.



    Calaron dentro Fòrcoli e l’asfalto

    s’ingentilì sotto le bici immonde,

    tinte e screziate di motoso smalto.

    E, come emersi dalle torbid’onde,

    i ciclisti respiran, mentre in alto

    Pèccioli tra le nubi si nasconde

    e questa volta religiosa sosta

    lassù sarà come dettame imposta.



    Nucci comunque più non si sbilancia

    dopo l’onta dei noti due insuccessi

    e tacito sta in gruppo che fa pancia.

    Salgon talmente placidi e dimessi

    che sembra che per tirar fuor la lancia

    ci vogliano gli unanimi permessi.

    Verso la fine Tempestin si scoccia

    e scatta in testa, primo alla bisboccia.



    Solo Nucci l’attacco un po’ rintuzza

    per conquistar per primo il bar Ferretti

    dove gli occhi famelici strabuzza.

    “Questi di tanta speme son gli oggetti”

    disse “che faran lieta la mia buzza

    ove nemmen staranno tanto stretti:

    orsù, sennò dall’appetito muoio,

    d’este frittelle voglio un pien vassoio.”



    Quali locuste dal disio chiamate

    con lingue in moto sulle labbra molli,

    piombaron gli altri monaci e l’abate

    a beccare frittelle come polli,

    non si sa bene quante vassoiate,

    prima d’imporsi d’essere satolli.

    E Tempestin primeggia a due palmenti

    con il trofeo d’uno stuzzicadenti.



    Fu dolce e lieto fin, naturalmente,

    anche se sul Palaia di ritorno

    qualcuno fu tra la perduta gente.

    Bagnol, d’allenamenti disadorno,

    sotto l’ala soffrì del presidente

    che scortandolo fino a mezzogiorno

    gli disse (fu minaccia?): “Giammai solo

    ti lascerò da quivi al Mortirolo!”




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    Messaggio Da Lemond Lun Feb 02, 2015 8:22 am

    Ma chi erano? (1)

    Quante donne ormai trascurate

    sono rimaste così dimenticate.

    Perciò desidero un po' indagare

    e alla nostra memoria riportare.

    Poeti e storici le hanno usate

    ed ora sono state sotterrate.

    Qui troverete parecchie novità

    se “avete” pazienza e curiosità.




    Briseide e Criseide

    Nell'Iliade, poema di Omero, si narra della guerra fra greci e troiani causata dal rapimento della bella Elena , moglie di Menelao, da parte del troiano Paride. I greci partono alla volta di Troia e pongono l'assedio. Li guida Agamennone, fratello del cornuto Menelao. Il guerriero più in forma è Achille.

    Durante l'assedio, Achille( figlio di Peleo e Teti invulnerabile fuorché nel tallone) cattura la bella principessa Briseide. La fanciulla si chiama Ippodamia, detta Briseide patronimico, infatti è figlia di Briseo re di Lirnesso Achille se la prende come schiava e come amante, ma... Saluti e novelle scuse da Anna Bini
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    Messaggio Da Lemond Mar Feb 03, 2015 8:21 am

    Ma chi erano? (2)

    Si precisa che Lirnesso era una città della Misia in Asia Minore sotto la protezione di Troia, quindi per Achille, Briseide era un prezioso bottino di guerra che non avrebbe mai ceduto a nessuno. Anche Agamennone si fece una bellissima schiava-amante durante l'assedio, Criseide (Astinome). Ella era per l'appunto figlia di Crise sacerdote di Apollo, che fu molto adirato contro Agamennone&C, che nonostante le suppliche e il denaro di Crise non volle restituirgli la figlia. Allora Apollo per vendetta e per dare una lezione a quel superempio di Agamennone scatenò nel campo greco una pestilenza, che fece molte vittime fra i greci. L'indovino Calcante individua la causa del morbo, e costringe Agamennone a restituire Criseide, che pretende di essere risarcito con un altro dono. Dopo un violento litigio col piè veloce Achille, Agamennone vuole in cambio di Criseide, che sarà restituita al padre, la”guancia graziosa” Briseide. Achille è sdegnato e non sa se uccidere Agamennone con un colpo di daga o contenere l'ira . Sarà la dea Pallade Atena a riportare la pace. Briseide passerà alla tenda del capo greco e, secondo le gossip di allora, gli darà un figlio, che fu chiamato Aleso. Intanto, la di lui moglie Clitennestra si era già fatta l'amante: Egisto e meditava la vendetta per un evento tragico causato da Agamennone. Insomma queste due donne furono determinanti nella guerra contro Troia: Briseide concedendosi ad Agamennone, placò l'ira di Apollo, che ritrovò libera la sua sacerdotessa Criseide e tolse la peste dal campo greco. Achille però impermalito si ritirò dalla guerra insieme ai suoi fedeli Mirmidoni, si deciderà a riprendere le armi in seguito alla morte dell'amico Patroclo per vendicarlo contro Ettore eroe Troiano.
    Teti

    Teti era una delle Nereidi, ninfe del mare figlie del dio Nereo e di Doride. Secondo una profezia era destinata a fare un figlio più potente e intelligente del padre. Essa sposò, per volere degli dei, Peleo re di Ftia in Tessaglia (a queste nozze, non invitata, la dea della discordia Eris, lanciò il pomo d'oro, che doveva essere dato alla dea più bella. Il giovane troiano Paride fra Atena, Era e Venere giudicò la più bella Venere (Afrodite in greco) e le dette il pomo: Da qui Atena umiliata sarà sempre protettrice dei Greci e Venere dei Troiani). Dall'unione nacque Achille che Teti amò sopra ogni cosa, tanto che per renderlo immortale lo immerse nel fiume Stige sorreggendolo per il tallone (cioè tutto invulnerabile fuorché nel tallone, infatti sarà proprio lì che la freccia di Paride colpirà , uccidendo il grande guerriero), poi lo confortò sempre, come ci rammenta Omero in varie parti dell'Iliade nei momenti più dolorosi. Quando l'eroe decise di tornare a combattere, andò da Efesto ( Vulcano che aveva dentro l'Etna una fucina insieme ai Ciclopi) e gli ordinò di forgiare armi “divine” per Achille contro Ettore. Alla morte di Achille, si dice, che essa costrui un mausoleo in fondo al mare dove depositò il corpo del figlio adorato, che onorò tutti i giorni per l'eternità, dato che lei era per sua disgrazia immortale!!! Saluti e scuse mitiche da Anna Bini
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    Messaggio Da Lemond Mer Feb 04, 2015 3:07 pm

    Ma chi erano? (3)

    Andromaca

    Andromaca = colei che combatte gli uomini, figlia di Eezione, re di Tebe Ipoplacia (città della Cilicia alle falde del monte Placo) sconfitto e ucciso da Achile che distrusse la città. Andromaca fu rapita e portata a Troia, fu costretta a sposare Ettore, che poi amò con tutta se stessa. Da loro nacque Astianatte . Omero nell'iliade la ricorda quando suplica Ettore di non combattere contro l'invincibile Achille. Ma l'eroe troiano non desiste e viene massacrato dal Pelide. Andromaca è una donna votata al dolore : durante la “fine” di Troia le uccidono l'unico fratello scampato, Pode; poi Neottolemo, figlio di Achille, le strappò dalle braccia Astianatte, che fu gettato dalle mura di Troia su consiglio di Ulisse, perché i Greci non volevano che la stirpe di Priamo avesse discendenza. Fu poi fatta schiava da re dell'Epiro e da altri re tiranni, infine, come ci racconta Virgilio nell'Eneide, sposerà Eleno, fratello di Ettore ed avrà finalmente un po ' di pace .




    Penelope

    Figlia di Icario e Policaste, discendente di Perseo e cugina di Elena. Appena nata, per volontà del padre, fu gettata in mare e fu salvata da alcune oche. I genitori se la ripresero e la chiamarono Penelope = anatra. Per altri il nome deriva da pené=tela.

    Fu sposa dell'eroe Ulisse, che partito per la guerra di Troia, attese per venti anni. Fedele al marito senza mai cedere alle lusinghe dei Proci invasori del suo regno, anzi ingannandoli facendo credere che avrebbe sposato uno di loro al termine della tessitura del sudario per Laerte, suo suocero, lo lavorava di giorno e lo disfaceva di notte. Amò e difese sempre il figlio Telemaco. Finalmente Ulisse tornò, uccise tutti i Proci e la riamò con tutto se stesso, nel letto costruito su un ulivo. Nacquero altri due figli: Poliporte e Agesilao. Penelope resterà per sempre donna ideale, sintesi di bellezza, regalità, fedeltà ed astuzia . Ricordiamola così e non diamo credito a leggende popolari calunniose per cui Penelope non fu tanto fedele ad Ulisse, amò il dio Ermes ( Mercurio) e anche uno dei proci Anfinomo. Tanti saluti e scuse omeriche Anna Bini



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    Messaggio Da Lemond Ven Feb 06, 2015 11:31 am

    Ma chi erano? (4)

    DIDONE

    Figlia di Berio, re di Tiro, fu contrastata dal fratello Pigmalione, che le uccise il marito Sicheo e prese il potere. Didone, costretta dagli eventi, andò in esilio, viaggiò lungamente, fermandosi a Cipro e a Malta. Infine si fermo sulle coste dell'Africa, dove ottenne dal re Iarba il permesso di stabilirsi lì in un'area “quanta ne poteva contenere una pelle di bue”. Didone, astuta, tagliò una pelle di bue in tante striscioline e le mise in fila per determinare i confini del suo nuovo regno: Cartagine e ottenne un discreto spazio. Da qui l'antico soprannome di Cartagine, Birsa che in greco è = pelle di bue. Didone fu chiesta in moglie dal re Iarba e dal principe dei Numidi, ma lei fedele a Sicheo, il defunto marito adorato, si uccise con una spada.

    Ecco invece la versione di Virgilio nell'Eneide. A Cartagine approda Enea (fuggito da Troia in fiamme con il padre Anchise, il figlio Ascanio ed altri sopravvissuti, dopo 7 anni di girovagare per i mari perseguitato da Giunone) e la regina Didone lo accoglie cortesemente e se ne innamora perdutamente! (non ignara mali, miseris succurrere disco = Non ignara del male, so venire incontro ai miseri). Di questa straordinaria passione viene a saper Iarba, che invoca suo padre Giove Ammone, affinché allontani l'indegno troiano. E Giove impone, tramite Mercurio Messaggero degli dei, a Enea, che dovrà costruire un nuovo regno sulla riva del Tevere, di andarsene. Dopo un violento e drammatico confronto con Didone, che maledice Enea e prevede eterno odio fra il suo popolo e quello di Enea (forse le guerre puniche fra Romani e Cartaginesi). Improbe amor, quid non mortalia pectora cogis = amore crudele, a cosa non spingi i cuori mortali ! Mentre Enea si allontana, Didone,disperata, evitate la sorella Anna e la nutrice Barce, si getta sulla spada che Enea le aveva donato e poi nel fuoco di una pira per sacrifici. “Grida e brucia il mio cuore senza pace, da quando più non sono se non cosa in rovina e abbandonata ”G. Ungaretti”. Sempre nell'Eneide, Virgilio racconta che Enea incontrerà Didone nell'Ade, il regno dei morti e le esprimerà il suo dolore per il tragico suicidio, ma lei non lo guarderà nemmeno negli occhi e si rifugerà presso l'ombra del marito Sicheo. Si precisa che Didone fu divinizzata dal proprio popolo con il nome di Tanit, simile alle dee greche: Afrodite, Artemide, Demetra, oppure alla dea fenicia Astarte la dea madre. Il culto di Tanit fu introdotto a Roma, sopravvisse alla fine di Cartagine e si estinse con le invasioni barbariche.

    Saluti e solitarie scuse da Anna Bini
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    Messaggio Da Lemond Sab Feb 07, 2015 11:45 am

    Chi erano? (5)

    IPAZIA

    Nel romanzo di U. Eco “Baudolino”, si narra che il protagonista, appunto Baudolino, vissuto all'epoca del Barbarossa, nel suo lungo girovagare in cerca di paesi fantastici, si imbatte nel regno delle Ipazie (satire, donne capra) e s'innamora di una di loro. Le Ipazie non sono altro che le discepole della vera Ipazia (che scorre sotto), nata ad Alessandria d'Egitto nel 370 circa e morta nel 415, è stata una grande matematica, filosofa, astronoma dell'antichità. Fu istruita dal padre Teone, direttore del Museion, famosa Accademia. Studiò ad Atene e in Italia la dottrina neoplatonica, indi ad Alessandria fondò la Scuola neoplatonica. Scrisse libri di matematica e compilò tavole astronomiche. Purtroppo di lei è andato tutto perduto, meno male che esistono buone fonti contemporanee che indicano le sue opere in varie raccolte. Una sua opera mastodontica fu un commento all'Almagesto (grandissimo libro) di Tolomeo, in 13 libri che raccoglieva tutto il sapere astronomico e matematico dell'epoca. Baudolino “ La nostra religione aveva trionfato in tutto l'impero, ma alcuni riottosi cercarono di tener vivo il pensiero di filosofi pagani come Platone. Uno dei più grandi cristiani del tempo di Ipazia, fu il vescovo Cirillo. patriarca di Alessandria,uomo di grande fede ma intransigente al massimo, che vedeva nel pensiero di Ipazia dottrine contrarie ai vangeli. Egli scatenò contro di lei cristiani ignoranti, non sapevano neppure cosa essa predicasse, e feroci, che la ritennero mentitrice e dissoluta. Insomma un giorno la tirarono giù dal carro, dove viaggiava, la portarono in un tempio, la denudarono e fecero scempio del suo corpo con cocci taglienti, poi misero sul rogo i suoi miseri resti. Sono fiorite intorno a lei molte leggende : dicono che fosse bellissima, ma si era votata alla verginità. Quello che sappiamo di lei ce lo hanno tramandato i santi padri che la condannarono e, onestamente da scrittore di cronache e istorie tendo a non prestare troppa fede alle parole che un nemico mette in bocca al suo nemico. Con lei morivano l'arte pagana, templi, statue, biblioteca, la scienza matematica e astronomica, la filosofia platonica, alcune sorprendenti invenzioni (a Ipazia sono attribuite 2 invenzioni: l'Areometro per determinare il peso specifico di un liquido; l'Astrolabio per calcolare il tempo e per definire la posizione del sole, delle stelle e dei pianeti. Con questo strumento pare che Ipazia abbia risolto alcuni problemi di astronomia sferica.) Nel Rinascimento. cioè dopo un milennio, fu riscoperto tutto ciò. Saluti e scuse dovute Anna Bini


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    Messaggio Da Lemond Lun Feb 09, 2015 7:59 am

    Quarta puntata 15/02/2004
    Dove si narrano le peripezie di un trinacrio giovine virgulto.

    Avevamo un Bagnol ch’andava in crisi
    in modo controllato e cartesiano.
    Boretti e Pucci avevano due visi
    ardenti di sudore disumano
    quand’erano in salita stanchi e lisi.
    Era però un ciclismo ormai lontano:
    adesso pigliano la via ridotta
    piuttosto che rischiar di far la botta.

    Chi s’allena una volta alle calende
    è diventato anch’egli tra gli esperti
    e nessun rischio d’esplosione prende.
    Però tu spettator non ti diverti
    a seguire un ciclismo di vicende
    senza travagli né dolor inferti.
    Lo sport fin da Nerone annoia e langue
    se non si versan lacrime con sangue.

    Dopo imprese di gola più che spada,
    ecco che i nostri eroi con gran sussulto
    ritrovan gloria ed epos sulla strada,
    grazie a un trinacrio giovine virgulto
    che a calcoli energetici non bada
    e s’offre implume al loro antico culto.
    D’Empolitour sul sacro altare s’offre
    e sacre pene corporali soffre.

    Udì dei biancazzurri le sirene
    e al gruppo s’appressò quella mattina
    con sorrisi presaghi non di pene.
    “Carmelo son, Carmelo son Mirmina.”
    Disse stringendo man d’augurio piene,
    lindo e novello come da vetrina,
    gialla la bici e giallo il manto nuovo
    come pulcin uscito appen dall’uovo.

    “Che tenerezza!” Disse la Bertelli
    che sotto l’ala se lo pose al fine
    d’insegnargli a volar con gli altri uccelli;
    e lui vide la rosa, non le spine,
    vide davanti a sé gustosi ostelli,
    vide un campo di fiori, non di mine.
    Pensava: “Se costor son quel che sento,
    io me la cavo senza allenamento.”

    In effetti costor, a prima vista,
    ma anche alla seconda, son depleti
    della normale facies del ciclista.
    Se Bagnoli, Boretti son atleti,
    o Caparrin o tanti della lista,
    esser atleta può persin lo yeti,
    e pur Boldrin che par maestro e donno
    oggi va col cimelio di suo nonno,

    ben ponderosa e nobile ferraglia
    che sotto i colpi della coscia immane
    vibra gemendo e molto si travaglia.
    Invece Tempestin, ignaro e inane,
    una Colnago si comprò al dettaglio
    come si compra la mattina il pane.
    In barba a chi se l’ordina dai sarti,
    l’ha vista e tosto ha detto: “Me la incarti!”

    Mirmina li osservava con gran studio
    e, fin a che la strada stava a valle,
    leggero pedalava con tripudio.
    Il fiato era un rumore di farfalle
    e, a parte qualche flebile interludio,
    sentor non c’era d’aspro e duro calle.
    S’avvicinava dunque il caldo alloggio
    lassù fissato a San Donato in Poggio.

    S’aprì perciò frenetica la danza
    con Chiarugi, Boldrin, Tempesta e Zio
    a primeggiar con foga ed eleganza,
    e fra un fiaton, un raglio e un cigolio,
    sembrava udirsi a molta più distanza
    invocazion ai santi e a Padre Pio:
    non eran del pulcin temprate zampe
    per affrontare le pur miti rampe.

    “Resisti ancora, giovine Carmelo!”
    Gridava il prode Nucci a lui proteso,
    ma fragile del fior era lo stelo
    che qua e là ondeggiava al grave peso
    mentre volgeva il guardo verso il cielo,
    giurando che non si sarebbe arreso,
    e in cima quel pulcino arrivò frollo
    stretto al sicuro fra la chioccia e il pollo.

    E il duca a lui: “Carmel non ti crucciare:
    vuolsi così colà dove le ruote
    vanno nel vento, e più non ansimare.
    Posa su questo bar le stanche piote
    e onora il nostro sacro desinare
    che non esige muscolare dote.”
    Ma quel pulcin affranto sul giaciglio
    si mise a becchettar soltanto miglio.

    Per dire invece quanto fur voraci
    i morsi dei ciclisti a lui dintorno,
    non si deve esser tanto perspicaci,
    come per presagir che il suo ritorno
    non fu di quelli da sorrisi e baci,
    ma sulla via dei dossi a mezzogiorno
    le ambasce di Mirmina furon vinte
    con un concento di pietose spinte.

    “Carmel non ti crucciare:” disse il duca
    “tu non sei il primo dei ciclisti cotti
    che scoppian sì che in terra fan la buca.
    Tante ne fecer Pucci e Pelagotti,
    e pur Boldrin sul passo di Sambuca
    morto salì con spinte e con cazzotti.
    Lo stesso Nucci, ch’or t’è propellente,
    da giovine scoppiava, me presente.”

    Lo riportaron sano e salvo al nido
    il giovine che venne qui da Noto
    sì forte fu l’affettuoso grido.
    Inerme egli volò verso l’ignoto
    ch’è per definizion suadente e infido,
    e a spese di sue gambe colmò un vuoto;
    chissà s’or si saranno consolate
    per rivederlo ancor altre puntate.


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    Messaggio Da Lemond Mer Feb 11, 2015 8:06 am

    Chi erano? (6)

    CLELIA

    L'ultimo dei 7 re di Roma fu Tarquinio il Superbo (la monarchia terminò circa il 509 A. C.). Cacciato da Roma per i suoi perversi costumi, tentò di riconquistare il regno chiamando in aiuto Porsenna etrusco lucumone (cioè re) della città di Chiusi. Si dice che Porsenna conquistata Roma ne fu a capo per diversi anni. A Roma si decise di trattare la pace con Porsenna, che secondo una leggenda popolare chiese in ostaggio 9 fanciulle romane, e così fu. Tra di loro c'era Clelia, una ragazza indomita che convinse le altre prigioniere a fuggire per non sottostare al giogo straniero. Clelia quindi condusse le ragazze fino al Tevere, in vicinanza di Roma. Per l'appunto il ponte Sublicio era stato distrutto quando Orazio Coclite aveva affrontato l'esercito di Porsenna (Coclite altro eroe romano per impedire l'invasione degli etruschi difese da solo il ponte mentre i compagni lo distruggevano di dietro. Secondo la leggenda egli si salvò dal pericoloso tuffo nel fiume, dalle ferite e tornò a Roma che per il momento non fu invasa). Clelia con le compagne fu costretta a gettarsi nelle acque gelide del fiume. Approdate, una sentinella lanciò l'allarme. Clelia e le altre furono condotte davanti ai consoli, che diedero ordine di riportarle a Porsenna per non venire meno ai patti. Porsenna saputo l'atto coraggioso di Clelia rimandò le ragazze. Poi non dette più appoggio allo scellerato re Tarquinio e stabilì una pace perpetua con Roma. Clelia fu onorata come grande eroina e nel foro le fu innalzata una statua equestre. In questo contesto si può ricordare Muzio Scevola , che invece di uccidere Porsenna sbagliò persona indi punì il braccio colpevole bruciandolo nel braciere. Quindi 3 eroi da ricordare : Clelia ,Orazio Coclite e Muzio Scevola. Tante grazie e scuse eroiche da Anna Bini
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    Messaggio Da Lemond Mar Feb 17, 2015 8:35 am

    Quinta puntata 07/03/2004
    Perdurando la carenza di ciclismo locale, Caparrini evoca le imprese dell’emigrante Baricci

    Sappiano i due lettor che non è chiusa
    l’opera nostra per vacanza o ferie,
    né per un giusto sciopero di Musa.
    È che per tre domeniche di serie
    l’Empolitour s’è sciolta, con la scusa
    di grosse e inconciliabili intemperie:
    raro è il ciclista che con neve o pioggia
    il cul asciutto sulla sella poggia.

    Caparrin, che voleva dar inizio
    all’epopea della salita lunga,
    dell’inazion subiva gran supplizio,
    dicendo a sé: “Convien che il sole giunga,
    ché per sanar d’allenamento il vizio
    di feste ci vorrebbe una prolunga,
    e ci son quei, come Bagnol e Pagni,
    nelle cui bici già dimoran ragni;

    Boretti la preserva dalle tarme
    con naftalina, e l’altre stanno pronte
    al richiamo dei cavalier senz’arme,
    ma sul partir per Casore del Monte
    la piova recita festivo carme,
    e son tre settiman che si fa il ponte.
    Di questo passo al Giro il Mortirolo
    lo scalerà Baricci da sé solo.”

    Disse un lettor: “Maestro, allora dicci,
    visto che anch’oggi niente bicicletta,
    chi l’è cotal intrepido Baricci.”
    E Caparrin: “Dirolti molto in fretta,
    poi vo a scalar il muro di Scandicci.
    (È cosa falsa ma oramai l’ho detta,
    così ci ho messo in icci un’altra rima
    e quest’ottava l’ho finita prima).

    O Baricci, figliolo di Maremma,
    o secondo lettor di queste ottave,
    tu che ostentasti il nostro sacro stemma
    pria di migrare verso terre prave!
    Noi tutti rimembriamo la tua flemma
    sulle salite, o le tue lunghe bave,
    o quei sudor copiosi e cirenei
    pedalando col fido ventisei.

    Ricordi, della storia il primo fosti
    ad usar sui Falcian cotanti denti.
    E noi eravamo lieti e ben disposti
    ad attenderti in vetta, e ben contenti
    quando giungevi a passi ben composti,
    passi comunque nemmen tanto lenti,
    se penso che sul Campo Imperatore
    t’aspettammo per meno di due ore.

    Pensa Baricci quanto il mondo è basso:
    potrai pur tu narrar ai tuoi nipoti
    di quando andasti in bici sul Gran Sasso,
    senza goder dell’auto come il Goti,
    impresa degna d’un eroe del Tasso
    a giudicar le atletiche tue doti;
    potrai narrar al fuoco d’esti esempi
    ch’erano forse i classici bei tempi.

    Ma un brutto giorno, o di Maremma figlio,
    ci annunciasti, di lacrime pur vago,
    la decisione del tuo tristo esiglio.
    Sulla valigia tua non c’era spago.
    La bici trasportasti ed il giaciglio
    nei paesi che riman ate od ago,
    laddove col coltello taglian nebbia
    e il freddo quando viene miete e trebbia.

    Così provasti come sa di sale
    lo pane altrui, e come è duro calle
    lo scender e ‘l salir per l’altrui scale.
    (Se copio Dante non dite: che palle!)
    Così provasti come si sta male
    a scender dai monti a fondovalle:
    gli impegni troppi che dovevi assolvere
    coprirono la bici tua di polvere.”

    Evocato da versi sì colendi,
    Baricci a Caparrin volle far motto:
    “Maestro, che pel cul un po’ mi prendi,
    sappi che il tempo qui nel Varesotto
    non passo al caminetto a bere brandy,
    ma di pedali son tuttora ghiotto.
    Non m’abbuffo, vabbé quest’è palese,
    meno, diciamo, d’una volta al mese.

    Ma mentre annegavate nell’accidia,
    io col mio passo, dici, tardo e lento
    salita conquistai da farti invidia:
    Campo dei Fior, metri milledugento,
    con vento, pioggia e neve come insidia,
    dieci chilometri all’otto percento.
    Beccati questo e tu mettilo in conto
    che con due sprizzi cassi il San Baronto!

    Ci rivedremo tra tre mesi al Giro,
    lo giuro sull’onor delle mie folte
    gote, e lo firmo adesso a piena biro.
    Frattanto le occasion saranno molte
    d’allenamento, seriamente miro
    ad allenarmi ancora ben tre volte:
    il Mortirol, son l’ultime parole,
    lo giuro, scalerò con moglie e prole.”
    Lemond
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    Messaggio Da Lemond Mer Feb 18, 2015 9:39 am

    RICORRENZA


    17 febbraio 1600: il filosofo Giordano Bruno, condannato per eresia dall'Inquisizione romana, brucia, spogliato nudo, legato a un palo e imbavagliato, in Piazza Campo de' Fiori. Ad ardere sul rogo non è un cristiano qualunque, come Roma non è solo la capitale dello Stato della Chiesa, ma anche il centro della cristianità. Bruno è un personaggio cosmopolìta, amico di prìncipi e ambasciatori, una figura europea di grande fama e livello intellettuale, noto ovunque. Glielo riconoscono, a Roma, i suoi giudici, che fanno di tutto per convincerlo ad abiurare, perfino il cardinal Bellarmino, capo del Santo Uffizio e grande inquisitore di Galileo Galilei. Sarebbe bastato un atto di sottomisione e avrebbe avuto salva la vita. Invece su di lui e sulla sua teoria ereticale cade il silenzio. I libri bruciati dall'Inquisizione, il suo pensiero dimenticato, avvolto nell'oblio per molto tempo. Per la Chiesa Giordano Bruno è un eretico (il che, naturalmente è vero, così come Galileo) ma questo giustifica il suo rogo. Un rogo che, in una piazza romana, ha illuminato l'alba di un secolo, a simboleggiare il trionfo della repressione e dell'intolleranza in un'Europa dilaniata dagli odi e dalle guerre religiose.
    P.S.
    Il papa-boia ha chiesto scusa, mi pare per Galileo, ma non lo ha fatto per Giordano, molto più rigoroso e coerente dell'altro.
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    Messaggio Da Lemond Lun Feb 23, 2015 7:51 am

    Ma vhi erano? (7)

    Rea Silvia (Rea colpevole di aver ceduto alla seduzione e Silvia per amante
    del bosco) figlia di Numitore re di Alba (si precisa che Enea approdò nel
    Lazio con il figlio Ascanio, sposò Lavinia e fondò la città di Lavino,
    Ascanio fondò Alba Longa e dopo diverso tempo re di Alba fu Numitore) che fu
    spodestato da l fratelo Amulio, che costrinse la nipote Rea Silvia a farsi
    Vestale (Vestale o sacerdotessa di Vesta non poteva sposarsi e generare
    figli) . Secondo la leggenda fu amata dal dio Marte e generò Romolo e Remo.
    Amulio naturalmente corse ai ripari e fece morire Rea o seppellendola viva o
    annegandola nel Tevere. I gemelli furono posti in una cesta e lasciati
    scivolare sulle acque del Tevere. La cesta rimase impigliata alle pendici
    del Palatino . Lì all'ombra di un fico detto Ruminale (dedicato alla dea
    Rumina), i gemelli furono allattati da una lupa. Poi furono raccolti dal
    pastore Faustolo e dalla moglie Acca Larenzia.
    Sulla Lupa di Roma sono nate mille leggende fra cui che la lupa fosse una
    procace prostituta di buon cuore (a Roma le lupe erano le prostitute, da
    cui lupanare = bordello) . Come mai una Lupa?
    Presso gli Etruschi il lupo era un dio degli inferi di nome Aita. La lupa
    sacra a Mamers cioè Marte era detta anche Marzia. In un certo senso le lupe
    o prostitute erano come delle sacerdotesse sacre a Luperco. A Luperco ( Lupo
    sacro a Marte, poi Fauno , poi Pane Liceo dei greci) era dedicata una
    grotta sotto il palatino; lì il pastore Faustolo avrebbe trovato i gemelli
    allattati dalla lupa. I lupercali erano feste di purificazione, il 15
    febbraio di ogni anno, presiedute dai sacerdoti Luperci riuniti in due
    sodalizi. Tali riti furono aboliti con il cristianesimo e sostituiti dallla
    festa della Candelora.
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    Messaggio Da Lemond Mer Feb 25, 2015 8:23 am

    I ciclisti erranti (sesta puntata)

    Sesta puntata 28/03/2004
    Torna il ciclismo ma stranamente si parla di presciutto, vino e marmellata.

    Però che come sulla cerchia tonda
    Monteriggion di torri si corona,
    così fra i vasi di perduta fronda
    del bar La Cerchia, come il verso sona,
    torreggiavan ciclisti sponda a sponda,
    dagli atti fieri e di viril persona.
    Coglievan di fatica il giusto frutto
    sbranando pani pieni di presciutto.

    Il sole che ignudava Caparrini
    tepeva lieve sulle esposte pance
    rilucendo nei calici dei vini,
    rossi brillanti come quelle guance
    dei cavalier oziosi ai tavolini,
    incuranti di lonze e di bilance.
    Questa di tanta lena è la sentenza:
    tra Pagni e gli altri non v’è differenza;

    tutti a domare quelle onuste fette
    che non entravano nemmen in bocca
    tanto tagliate parver colle accette.
    Guardate a cosa assistere ci tocca
    invece che cantar le biciclette
    venute a conquistar l’ardita rocca!
    Pur la Bertel, che di sospiri campa,
    su una pagnotta trenta denti stampa.

    Anzi, costei non paga di sue pecche
    volle traviar colui ch’è ancor asceta,
    col pan ripieno di cotai bistecche.
    “Chiarugi,” disse “cessa di far dieta
    ed offri tosto alle tue membra secche
    questo presciutto che dimolto asseta.
    Nol vuoi? Lo cedi a Giunti? Non m’adonto,
    però come mangiante paghi il conto.”

    Il pio Chiarugi, in tentazion indotto,
    guatava fra il rumor delle mascelle
    quei sette in viso senza fare motto.
    Sentiva che il suo stomaco ribelle
    non avrebbe giammai il digiun rotto,
    figuriamoci poi proprio con quelle
    fette suine che non fian digeste
    pria delle prossime pasquali feste.

    Però per una volta disse: “O membra
    secche temprate da un’antica inopia,
    oggi per volontà suprema sembra
    che si debba di Pagni essere copia.
    Pure se fame ancor non si rimembra
    cediamo ai frutti d’esta cornucopia:
    orsù compagni, sì, pur io m’ingozzo,
    di pane datemi impudico tozzo.”

    Allor Boldrin, transgenico ragazzo,
    pietoso si mostrò verso quell’alma.
    Di tasca estrasse un assai strano razzo,
    sul pan puntò l’ogiva e disse: “Spalma!
    Di mora è questo un delizioso guazzo,
    così tu mangi e la Bertel si calma.”
    Quel che si vide poi fu proprio un morso
    dopo un lustro d’ascesi ormai trascorso.

    Chissà se fu di più la meraviglia
    o quel gotto di vin che a Giunti diede
    la punta del nason calda e vermiglia.
    Pur Caparrini, quando n’ebbe fede,
    i peli raddrizzò e sopracciglia,
    come colui che gran prodigio vede,
    o forse furono reazioni crude
    al fresco ombroso di sue membra ignude.

    Fu meraviglia o vin che diede sangue
    a Nucci che giaceva un poco mesto
    al sol silente come l’uom che langue?
    In Ziodipucci florido e rubesto
    specchiava il suo visin egro ed esangue
    desideroso di tornar in sesto,
    mentre Zio, dopo pan, presciutto e chianti,
    mordeva cioccolata in man coi guanti.

    A questo punto ci si chieda pure
    se d’esto giro di Monteriggioni
    son tutte mangerecce l’avventure.
    Sì. Ci son tante e valide ragioni
    per tacere dell’esperienze dure
    vissute in bici fuori dai torrioni:
    la mediofondo stia dentro il nartece
    e il resto in bici merita una prece.

    Emblema sia dell’onta e dello smacco,
    del pingue Elle Bagnol la lunga fuga
    sospesa a Castellina per distacco.
    Staccati Achilli dalla tartaruga:
    questo di cronaca riman nel sacco
    e pezzola non val che il pianto asciuga.
    D’altri commenti non si trova il fiato,
    pianger non vale sul Bagnol fugato.

    Tacciamo pure del ritorno a casa.
    Di colli e dossi ch’erano in programma
    s’e fatta per pietà tabula rasa.
    Ma non bisogna affatto farne un dramma,
    la mediofondo in fondo è stata evasa
    con un sollecito ritorno a una fiamma.
    Duro e selvatico più delle rape,
    Boldrin alfin fuggito è dietro un’Ape.

    Onore in fondo a questa mediofondo
    portata in fondo da tanti di voi
    che alle riserve avete dato fondo,
    raschiando il fondo ben dei serbatoi,
    senza lasciar nei vetri di vin fondo,
    pasciuti e lesti come in fondo buoi.
    Mediofondo è parol composta e varia,
    a fondo è andata sol la media oraria.
    Lemond
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    Messaggio Da Lemond Gio Mar 05, 2015 8:52 am

    Ma chi erano? (8)

    Donne donne eterni dei ?
    Ma sarà così veramente?
    penso proprio per niente !
    Osservate un po' questa Lei

    Nacque in tempi remotissimi, di cui si è perso ogni traccia . Allora, allora, si credeva all'infinito ( pezzo di cielo sopra Firenze) si mangiavano cibi preparati nei centri commerciali, si avevano tessere di tutti i tipi anche quella per andare in paradiso, ci si muoveva sulla terra piatta con difficoltà inaudite per posteggiare l'auto. Lei credeva fermamente nei dottori, nei farmaci chimici o omeopatici che fossero, quasi le dessero una specie di immortalità. Si credeva che amare volesse dire esaudire sogni, bisogni e desideri, invece tutto il sopraddetto fu divorato dall'informatica, dalle scienze esatte, che non chiedevano scusa a nessuno, tanto meno a Lei, digerito e ridotto in poltiglia maleodorante. In un codice , rosicchiato dai topi , si è "repertato" un mito secondo cui la sopraddetta Lei fu detta santa Baccella, protettrice degli ansiosi, dei depressi. Pare che le fosse dedicato una cappellina fatta di scatoline del tavor, collonnine con capitelli di salvia e ramerino e sul leggio dell'altare il Vangelo e la commedia di Dante. Forse un'orda atea guidata da Monami l'empolese incendiò il tempietto e sparse sopra le ceneri il sale. Ogni tanto si sente dire che esistono ancora delle discepole di s. Baccella , una delle quali pare abiti in via rusciano 30 .....
    Saluti da Anna Bini e secolari scuse
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    Messaggio Da Lemond Gio Mar 05, 2015 1:36 pm

    Vorrei il parere di chi legge, per sapere se c'è qualcosa che non torna a lui? Grazie se qualcuno potrà aiutarmi e ciao, Carlo.

    Non sono Charlie

    A proposito della lettera del sig. Alfio Bettin, a cui non posso rispondere, perché (a differenza di altri giornali) voi non pubblicate l'indirizzo, provo a scrivere qualcosa:

    Più una persona è ignorante e più i suoi giudizi sono "tranchant" e naturalmente, allo stesso tempo, semplicistici e il carattere (di costoro) è di solito permaloso. Sad

    A. B. "Perché se da un lato tutti siamo solidali con "Charlie" per il vile attentato terroristico di Parigi, non siamo neppure d'accordo che la libertà di espressione si trasformi in libertà di offendere i sentimenti più profondi delle persone".

    C.R. Premetto che non so quasi niente di questo *Charlie*, però arguisco che sia stato colpito da un attentato, con morti e feriti e dunque rispondo in generale su che cosa significhi *offendere*. La parola è composta da fendere e *ob*, mentre se si premette *di*, si ottiene *difendere*, il primo significa spingere (fendere la folla) contro e l'altro respingere (presumibilmente un danno) e qui siamo già in difficoltà a intenderci, ma se si aggiunge *i sentimenti ..." allora siamo in piena incomunicabilità (citando Antonioni), se non si spiega quali siano i sentimenti più profondi delle persone. Provo ad analizzare qual è il mio modo di percepire con i sensi (ovvero sentire), ma mi riesce difficile conciliare questo concetto con la profondità e allora tiro a indovinare che cosa significhi per A.B. Forse amore per i figli (e la famiglia in generale) e per gli amici, più in là non riesco ad andare. Che cosa ci può essere di altro e, al contempo vero e non *inculcato dalla società*? Forse il proprio egoismo, chiamato anche amor proprio, che ci spinge a credere che gli altri, se sono diversi e lo sono, enno (dall'originario essono c'è la variante più usata e questa) anche peggiori, ma se è questo, mi sembra giusto che sia spinto via. C'è poi da discutere sulla libertà di espressione che, secondo A.B, sarebbe da limitare, il che significa, mi sembra che certe parole non si possono usare, però non si dice quali, si parla soltanto di provocazioni, termine molto generico e quindi, secondo me, alquanto tautologico (anche perché è un termine usato da molti). A me sembra che il turpiloquio sia quasi sempre gratuito e quindi, non lo uso mai, ma per il resto mi accorgo che non esiste una parola di per sé offensiva e che l'offesa è sempre negli occhi e nell'ignoranza di chi legge e che interpreta a modo suo o, seguendo i più senza pensare, che è peggio!
    Rammento che, quando insegnavo, talvolta auguravo ai ragazzi "Accidenti a voi, nel senso che vi accada qualcosa di ... piacevole, oppure dicevo a uno che era imbecille, cioè debole, in alcuni aspetti o che idioti lo siamo tutti, tranne quelli che di solito, secondo certa vulgata, fanno parte di "Roma ladrona" e così via. Più cerco e più mi convinco che non esiste modo di offendere gli altri e che semplicemente sono costoro che cercano pretesti per sentirsi così!

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